Arabia Saudita (©Elena Franco)

Breve glossario della Biennale 2018

Breve glossario della Biennale

Gli highlights della sedicesima edizione, dalla A di Arabia Saudita alla Z di Zumthor

 

A come ARABIA SAUDITA. Insieme ad un gruppetto di altri paesi, è all’esordio alla Biennale Architettura. Facendo le cose in grande: collocazione centrale all’Arsenale, allestimento importante e costoso. Con tanto di due curatrici, donne. Come dire: attenzione, ci siamo e facciamo sul serio. Orizzonti futuri.

B come BORSETTE. Quella grigio istituzionale di Biennale o quella verde dentifricio della Germania (che però ha anche una versione nera)? Quella larghissima di Padiglione Italia o quella sciancrata del CCA, con scritta fucsia? Dimmi che borsa hai e ti dirò chi sei. Spariti del tutto o quasi gadget e chiavette-usb, restano le borse ad esibire percorsi e preferenze. Mai più senza.

C come CINQUE-VIRGOLA-SEI-PERCENTO. Rappresentanza italiana al lumicino: sui 71 gruppi di progettisti presenti in Freespace, gli italiani sono soltanto 4. Oltre agli aficionados di ogni Biennale o quasi (Cino Zucchi e Maria Giuseppina Grasso Cannizzo), ci sono soltanto altri 2 nomi, femminili e sorprendenti, come la genovese Francesca Torzo e la romana Laura Peretti. Si può fare di più.

D come DONNE. Finora c’era stata solo Kazuyo Sejima nel 2010 ad interrompere la lista di 14 curatori uomini in 15 edizioni. Quest’anno Biennale ha fatto un passo verso la parità di genere: non una donna, addirittura due. Che però dicono: “Non è il lavoro di Shelley e Yvonne, ma di un gruppo che si chiama Grafton Architects”. Né uomo né donna.

E come ESPOSIZIONI. Troverete sempre chi vi dice: “Ma i disegni dov’erano?”. Ritornello di ogni Biennale. Facciamocene una ragione: le mostre di architettura sono e saranno sempre più soprattutto installazioni. E anche i modelli architettonici virano con decisione verso la rappresentazione artistica. Così è se vi pare.

F come FREESPACE. A giudicare dai commenti nessuno ha capito bene cosa sia. Non bastano migliaia di mq di allestimenti e un manifesto, scritto ad hoc, pieno zeppo di definizioni possibili. Freespace è tutto e niente, destinato a trasformarsi in una sorta di animale mitologico nello zoo dell’architettura contemporanea. Non si capisce nemmeno come scriverlo: maiuscolo o minuscolo? Attaccato o col trattino? Giudizio libero.

G come GIOVANI. Tra gli oltre 166 singoli autori partecipanti alla mostra principale, c’è un solo nome sotto i 30 anni. Conti sulle dita di una mano chi li compie quest’anno. Per il resto l’età media è parecchio alta e, gira-e-rigira, i nomi sono (quasi) sempre gli stessi. Generazioni in attesa.

H come HU-MANHATTAN 2050. BIG, nel Padiglione centrale dei Giardini, recupera uno dei grandi assenti di questa Biennale, il tema (forse troppo logorato) della sostenibilità. Con un grande plastico presenta il disegno per una Manhattan parzialmente allagata a causa dei cambiamenti climatici. Learning from New York.

I come ITALIA. Inteso come Padiglione. L’arcipelago di Cucinella è spazio elegante e curato. Parla poco forse di progetto in senso stretto. Ma mostra con efficacia tante storie belle e virtuose dei nostri territori. Vivamente consigliato al prossimo Ministro del Turismo. Politicamente correttissimo.

L come LINGUE/LOGO. La parola Freespace tradotta in decine di lingue e scritta con font diversi, un po’ verticale un po’ orizzontale: non di immediato impatto il logo della 16. Biennale. Ma stimolante perché puoi giocarci per capire quante lingue riconosci. Babele.

M come MENDRISIO. Il commento maligno colto alle Corderie (“Beh, potevano organizzarla direttamente a Mendrisio”) centra un punto: Freespace è fatta in buona (gran) parte da architetti che lavorano all’Accademia. Dove anche le curatrici insegnano. La Biennale è mondiale, la sua capitale è in Canton Ticino. Amici miei.

N come NUTRIMENTO. Parlare di politica senza parlare di politica. La Biennale scorsa era decisamente schierata, questa sceglie di galleggiare su un livello diverso, senza occhieggiare a facili populismi. Le curatrici suggeriscono, Baratta finalizza: “Il Freespace è un diritto di tutti. L’architettura deve costruire la comunità. Dobbiamo prenderci cura dei nostri luoghi”. Socialmente responsabile.

O come ORIZZONTALE. Come la vertigine raccontata nel Padiglione Argentina, Sale d’Armi dell’Arsenale. Una grande costruzione-serra dentro cui puoi affacciarti, virtualmente infinita grazie ad un gioco di specchi. Affascinante e piacevolmente disorientante.

P come PROVERBIO. Due anni fa Aravena aveva usato l’immagine dell’archeologa tedesca Maria Reiche in cima ad una scala nel deserto come simbolo del suo sguardo. Quest’anno le Grafton sono andate più indietro nel tempo, recuperando un proverbio greco: “Una società cresce e progredisce quando gli anziani piantano alberi alla cui ombra sanno che non si siederanno mai”. Proverbiale.

Q come QUADRONNO 24. È la via milanese dove sorge un edificio di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti. Concluso nel 1962 vive paradossalmente oggi a Venezia il suo momento di massima diffusione, citato nel Manifesto di Yvonne Farrell e Shelley McNamara, insieme a pochissimi altri riferimenti: Jørn Utzon, Lina Bo Bardi, Palazzo Medici Riccardi. Nel Pantheon dell’architettura.

R come ROBIN HOOD GARDENS. Serve questo lavoro, in collaborazione con il Victoria and Albert Museum di Londra, per convincerci che la Biennale non è solo speculazione. Ma ha a che fare con il corpo fisico delle città. Il complesso brutalista degli Smithson viene demolito. In questa sezione speciale viene ricordato anche con un’installazione che si affaccia sui canali dell’Arsenale. RIP.

S come SUNYATA. Il salone dell’Indonesia alle Artiglierie celebra la poetica del vuoto. Una grande vela bianca attraversabile realizzata artigianalmente con carta. Non c’è nulla se non la rigenerante sensazione di un luogo creato con niente. Boccata d’ossigeno.

T come TRADIZIONE. Filtra come intenso, soprattutto ai Giardini, il rapporto di Freespace con le complesse eredità del passato. Approccio che ha il suo culmine nel Leone d’Oro alla carriera assegnato a Kenneth Frampton, simbolo vivente della conoscenza e della diffusione della storia dell’architettura. Senza tempo.

U come UNDERSTATEMENT. Rimesse nell’armadio le camicie bianche, questa Biennale sceglie il basso profilo. Anche nell’abbigliamento. Atteggiamento anglosassone, forse. Aravena si muoveva come una rock-star, le Grafton sembrano i giudici di un talent-show. Umiltà e moderazione.

V come VATICANO. Tra le new entry c’è il Padiglione Vaticano, all’Isola di San Giorgio. Un esperimento ardito e coraggioso, griffato e ambizioso. Gli esiti contestabili ma il senso non si discute: di architettura contemporanea parla anche la Chiesa. Sacro e profano.

Z come ZUMTHOR. Sull’attinenza con il tema Freespace si potrebbe discutere. Ma il soppalco del Padiglione Centrale dei Giardini con lo sguardo che corre verso il canale attraverso una finestra disegnata da Carlo Scarpa e una sequenza di impareggiabili modelli di Peter Zumthor (che provengono dalla collezione di Bregenz) è un luogo che concilia con il mondo e con l’architettura. Poetico.

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale