A drone shot of colorful shipping containers in a shipping terminal. Original public domain image from Wikimedia Commons

L’era urbana è finita, viva l’era urbana

L’era urbana è finita, viva l’era urbana

Oggi, i territori dell’Antropocene pongono al giornalismo che voglia comprenderli sfide inedite

 

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Published 16 maggio 2023 – © riproduzione riservata

Quando «Il Giornale dell’Architettura» ha cominciato le sue pubblicazioni, alla fine del 2002, le città erano ovunque. Non solo dal punto di vista delle geografie territoriali, ma anche, se non soprattutto, di quelle culturali. I discorsi sull’imminente superamento della soglia del 50% di popolazione mondiale urbanizzata facevano parte di una serie di luoghi comuni largamente riproposti. La cultura architettonica era impegnata a ripensare il proprio statuto nel mondo globalizzato attraverso un’osservazione di quelle città che sembravano rappresentare un campo privilegiato d’intervento. Tra trasformazioni delle città e trasformazioni dell’architettura sembrava esserci un legame molto stretto. Il primo decennio del Giornale si apre con l’Harvard Project on the City diretto, tra gli altri, da Rem Koolhaas, e si chiude sotto il segno del progetto “The Urban Age” promosso a partire dal 2005 da London School of Economics e Deutsche Bank. Anche i più accesi critici del neoliberalismo (Città di quarzo di Mike Davis è del 1990) avevano da tempo puntato sulla dimensione urbana come il principale luogo di riproduzione delle diseguaglianze e uno dei veri nodi del conflitto sociale. L’editoria italiana era molto ricettiva nei confronti di queste letture.

Il Giornale aveva, e mantenne a lungo, una struttura per sezioni tematiche, che scomponeva l’architettura in una serie di sottotemi: Progetto, Tecnologia, Restauro, Paesaggio, Design. Era un tentativo non solo di sperimentare diversi angoli di avvicinamento alle trasformazioni del mondo costruito ma anche, se non soprattutto, di dialogare da vicino con le discipline presenti nel sistema universitario italiano, per un progetto editoriale che aveva un piede nell’informazione e un piede, ben saldo, dentro l’accademia. Come entravano le città dentro questa classificazione? Non entravano. Le città erano per il Giornale uno dei (pochi) luoghi di sintesi delle conoscenze settoriali, il terreno di scambio dove diverse prospettive erano chiamate a confrontarsi. Erano il luogo dove, respingendo le rivendicazioni di competenza esclusiva che venivano dagli specialismi, si perseguiva un equilibrio – ai limiti dell’acrobatico – tra pertinenza tecnica dell’analisi e leggibilità per un pubblico più ampio, rivendicando una dimensione civica per l’osservazione e il racconto del presente. Non è un caso che la sezione sulle città sia rimasta per tutta la vita del Giornale una di quelle che suscitavano in redazione le discussioni più accese.

Non che con l’urbanistica non ci fosse un rapporto privilegiato. Il Giornale ha attraversato fin dalla sua nascita una fase di trasformazione dell’urbanistica italiana, segnata da dibattiti sulla fine dell’urbanistica regolativa, dall’avvio della stagione dei piani strategici, dall’onda lunga del protagonismo dei sindaci, dalle polemiche sul ricorso a strumenti negoziali nei piani di Milano e Roma. Era anche una fase di grande trasformazione infrastrutturale del paese, attraversato dalle retoriche dei corridoi transeuropei e dalla molto concreta, e contestata, realizzazione dell’alta velocità ferroviaria. Dare voci alle diverse opinioni cercando in primo luogo di renderle più leggibili e di tradurle per un pubblico di non iniziati era uno dei compiti che il Giornale si era dato. E si può dire che, osservati retrospettivamente, i numeri del Giornale restituiscano oggi, più di altre pubblicazioni di quegli anni, un senso delle posizioni in campo e delle principali figure che ne furono portatrici. Osservare sul terreno come effettivamente si stavano trasformando le città era tuttavia questione più ardua, che la struttura di una redazione agile, che si affidava soprattutto allo strumento del reportage e all’occasionale voce di esperti invitati, faticava a cogliere con efficacia.

Oggi alcuni dei tratti di quella stagione di osservazione e racconto delle città e dei territori possono apparire così remoti da essere quasi archeologici. Le prospettive aperte dalla crisi ambientale hanno messo in crisi sotto più di un aspetto l’equilibrio dei saperi che il primo Giornale aveva immaginato come fondativo e reso urgente la sperimentazione di nuovi mix di competenze. La centralità stessa delle città come punto di riferimento per un’osservazione di alcune questioni chiave del mondo contemporaneo si trova ad essere di volta in volta riaffermata su nuove basi o messa radicalmente in discussione. Sul piano delle competenze necessarie e dei linguaggi più adatti per comprendere i territori dell’Antropocene si gioca oggi una sfida radicalmente nuova per un giornalismo che sia capace di tagliare nel vivo delle questioni, di scomporre e ricomporre i propri oggetti, di seguire gli oggetti della propria indagine lungo percorsi inaspettati, di riscoprire il gusto dell’inchiesta.

 

Immagine di copertina: Shipping containers (© rawpixel.com)

 

 

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Autore

  • Filippo De Pieri

    Insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Torino. Le sue ricerche si concentrano sulla storia delle città di Otto e Novecento, con particolare attenzione ai temi della storia dell’abitare e agli intrecci tra storia pubblica, memoria e trasformazioni dello spazio. Il suo ultimo libro è Tra simili. Storie incrociate dei quartieri italiani del secondo dopoguerra (Quodlibet 2022). Per «Il Giornale dell'Architettura» ha curato la sezione "Città e territorio" dal 2002 al 2010

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