Patrimonio, la sua tutela non può essere solo normativa e burocratica
Dal concetto di bene a patrimonio, tra transizione ecologica e sostenibilità, la teoria e la prassi al giorno d’oggi
Published 07 giugno 2023 – © riproduzione riservata
Se si volessero sintetizzare le attività umane e le condizioni in cui si svolgono con una terminologia attuale, difficilmente si troverebbero concetti più generici e inclusivi di quelli riferibili alla “transizione ecologica” o, ancor più, alla “sostenibilità”.
Coniata nei primi anni settanta del Novecento dall’economista francese Serge Latouche, la “sostenibilità” comporta che la crescita economica sia rispettosa dell’ambiente. Negli stessi anni il Club di Roma, fondato nel 1969 da Aurelio Peccei, coniò la “transizione ecologica” intergenerazionale. I due concetti sono presenti anche nell’Agenda 2030 dell’ONU dove, con accenti non privi di retorica, non si trascura alcun elemento economico e sociale: “dimensione ambientale”, “povertà”, “fame”, “salute e benessere”, “istruzione” […], “energia pulita”, ecc. Fino ad augurarsi che le città divengano inclusive, sicure e durature, che il consumo sia responsabile e che si lotti per il cambiamento climatico.
Un linguaggio usato sempre più di frequente: anche la seconda “Missione” del PNRR è titolata “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, quale prevenzione e resistenza a un futuro incerto. Concetto espresso da Latouche attraverso il termine “resilienza”, che ha origine nella fisica meccanica e indica la capacità di un corpo di assorbire un urto senza danni irreversibili. Nel Regno Unito ha anche significato “spirito di adattamento”. E nel PNRR “impegno a reagire agli effetti della pandemia”.
Dal PNRR, il patrimonio culturale per la prossima generazione
Il PNRR, nella Misura M1C3, tratta anche del “patrimonio culturale per la prossima generazione” (miglioramento di digitalizzazione e di accessibilità).
Il termine “patrimonio”, va ricordato, è nato dalla combinazione etimologica di pater + monere e significava in origine “ciò che appartiene al padre” e, per implicito allargamento, alla famiglia. Un concetto che, nell’ambito della sfera privata, implicitamente richiamava quello di eredità. Progressivamente, si sono registrati ulteriori ampliamenti, dalla famiglia a gruppi più ampi, fino all’intera collettività; mentre, di pari passo, il termine da esclusivamente giuridico entrava nella sfera culturale. L’affermazione di una coscienza collettiva sul patrimonio acquisiva rilievo nel clima della Rivoluzione francese. E nella Carta di Venezia (1964) era ufficialmente enunciata come responsabilità comune sulla salvaguardia dei monumenti (De Simone, Di Maio, Parenti, 2019). Anche la connotazione originaria di eredità si estendeva, così, all’intera comunità.
Pur se tra i settori inclusi nella “sostenibilità” e nella “transizione ecologica” può sottintendersi il “patrimonio culturale”, è raro che esso vi risulti espressamente segnalato e che se ne dia una chiara definizione. Ciò non significa che ne sia escluso, in quanto gli aspetti identitari da esso rappresentati fanno parte, di diritto, della storia e della cultura di una nazione. Ma è proprio questa caratteristica che, nel bene e nel male, determina talvolta dei gap difficilmente superabili tra le modalità in cui è tutelato il patrimonio culturale di un singolo Stato e quelle che regolano l’individuazione di beni a scala mondiale. Si pensi, ad esempio, ai siti Unesco. Senza contare taluni problemi di carattere ambientale, economico o sociale che, per loro natura, sono risolvibili solo a scala sovranazionale.
Le analisi e gli studi condotti nell’ambito della sostenibilità e della transizione ecologica ci dicono che tutti i settori sono collegati e, quindi, l’individuazione delle cause di determinati fenomeni e dei conseguenti rimedi non può essere condotta su binari autonomi.
Tale considerazione deve valere, quindi, anche per la salvaguardia del patrimonio culturale, la cui tutela non può basarsi su un piano esclusivamente normativo e burocratico; considerando di quest’ultimo, oltretutto, gli aspetti confusi e contraddittori.
L’uso del termine “bene culturale” nel secondo cinquantennio del secolo scorso, riferito a un’entità fisica connotata da interesse culturale, ha largamente prevalso su quello di “patrimonio culturale”.
Ma il termine “bene” richiama soprattutto la sua natura economica: l’oggetto principale di un mercato che è domandato e offerto e quindi scambiato quando ne viene indicato il prezzo. Ne consegue che il termine “bene culturale”, nel presupporre implicitamente un mercato, resta esposto alle inevitabili contingenze che ne regolano i processi. Contingenze legate a luoghi e circostanze ogni volta differenti, che inevitabilmente incidono sull’applicazione delle norme, condizionata da un non trascurabile grado di discrezionalità. Inevitabilmente, il rapporto tra bene culturale e mercato è inversamente proporzionale a quello tra bene culturale ed eredità.
Affermare, invece, che un’opera appartiene al “patrimonio culturale”, significa inserirla all’interno del capitale consolidato rappresentato dall’insieme dei beni legati all’identità nazionale e destinati a essere trasmessi come eredità alle generazioni future nel rispetto del cosiddetto “valore di opzione”. Danneggiare o distruggere quell’opera significherebbe danneggiare o depauperare l’intero patrimonio. Inoltre, con riferimento alla letteratura economica, l’offerta del patrimonio è “indivisibile”, quindi a utilizzo “congiunto” tra i componenti della generazione presente e quelli delle generazioni future. E crea effetti positivi definiti “esterni”, ossia non percepiti solo da chi ne svolge una fruizione diretta.
Il “bene culturale”, dunque, andrebbe sempre considerato all’interno di un più ampio contesto critico e sociale, di cui è espressione e testimonianza, possibilmente accostato ad altri beni che ne fanno parte. Ad esempio, la possibilità d’inquadrare un’opera all’interno di una serie di altre che hanno in comune inoppugnabili caratteri comuni sanciti dalla letteratura critica – sotto il profilo testimoniale, espressivo, tecnologico, sociale – e legate dal fatto che non se ne producono più, ne consentirebbe una consapevole storicizzazione, evitando la meccanicistica applicazione della norma dei settant’anni.
La teoria e la prassi della tutela oggi
Su un piano più generale, la teoria e la prassi della tutela dovrebbero fin dall’inizio confrontarsi consapevolmente con il perseguimento d’altri interessi, anche se a prima vista contrastanti, ricercando aspetti che possono risultare concorrenti, in quanto indirizzati ad obiettivi comuni. Si possono, al riguardo, citare la limitazione della mobilità su gomma nei centri storici o la tutela di aree territoriali caratterizzate da condizioni particolari e a rischio quali, in primis, i fiumi e le zone costiere, propri della transizione ecologica; o la reinterpretazione funzionale e gestionale di edifici storici; la re-invenzione degli spazi urbani attraverso la street art; o, addirittura, la realizzazione di sistemi di trasporto pubblico pensati assieme all’installazione permanente di opere d’arte, come avvenuto a Napoli; oppure, in occasione di mostre internazionali, all’installazione di padiglioni temporanei che diventano definitivi, come le Vatican Chapels a Venezia. Iniziative che coniugano l’aspetto culturale con quelli legati alla limitazione del trasporto su gomma, all’incentivazione del turismo e a tutti gli effetti più o meno diretti indotti sul piano economico.
Possiamo, dunque, concludere che la “fruizione” del patrimonio è possibile solo attraverso la “conservazione” e la “produzione”, a condizione che queste ultime siano esercitate tenendo conto delle reciproche esigenze.
Marilena Vecco, L’evoluzione del concetto di patrimonio culturale, Franco Angeli, Milano 2007
Amedeo Di Maio, Economia del patrimonio e delle attività culturali, Hoepli, Milano 2019
Serge Latouche, La resilienza nell’Antropocene, nel convegno Cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, crisi economica: scegliere il futuro dopo la crescita, Pisa, 1° aprile 2019
ISCRIVITI ALL’INCONTRO IN PRESENZA