Le culture del progetto tra parole d’ordine e slogan
Francesco Cellini s’interroga sulla vacuità del dibattito odierno. Ma il rimedio è nelle nostre mani…
Published 7 marzo 2023 – © riproduzione riservata
La condizione della voce pubblica dell’architettura è davvero deprimente e, forse, lo diventa ancor più se, in coerenza coi tempi, ne aggiorniamo i termini a quelli del linguaggio corrente, quello dei social networks. Nelle attuali dinamiche della vita professionale e artistica non c’è infatti traccia della logica strutturata, convenzionale, militante, anzi quasi militaresca, che caratterizza il primo di essi (la parola d’ordine), né alcun ricordo della fantasia sensuale e provocatoria che era propria degli slogan della tradizione pubblicitaria. Oggi si tratta, semplicemente e piattamente, di parole: chiave, reiterate, allusive e quindi semivuote, dove spesso l’hashtag sta a compensare l’imprecisione con la ricorrenza. Ovvero di gruppi di esse, quindi qualcosa di meno che frasi, cioè parole scelte (per contrasto, stridore, sonorità, assonanza) in modo che l’insieme resti facilmente memorizzato e replicato; insomma che sia, per usare il gergo in voga, un meme. Tali sono le forme della lingua universale della comunicazione e della seduzione sociale contemporanea; quindi la cosiddetta cultura del progetto, come tutte le altre, le adotta, o meglio, vi si impersona. Cosicché ridonda di eco-, bio-, paesaggio, paesaggi, boschi verticali ecc. e lo fa proprio nella sua manifestazione più evidente, quella delle modalità con cui gli architetti cercano di attrarre i committenti; le stesse, in quanto a ruffianeria, usate da Bernini nel regalare il modello d’argento della fontana dei Quattro Fiumi alla cognata di Innocenzo X.
Ho scritto: manifestazione più evidente; ma ce ne sono altre? C’è qualche struttura intermedia, o articolazione, o flusso che si muova, agisca, ispiri, animi, medi, prima di arrivare alla bruta sostanza commerciale e finanziaria, questa sì davvero globale, che intravediamo sotto ogni trasformazione della realtà? Fino a pochi decenni fa qualcosa c’era: le sovrastrutture, per usare un termine marxista, come il gusto, la critica, l’ideologia ecc. Fenomeni secondari che tuttavia ci hanno finora autorizzato a dar senso e valore alla parola cultura, senza esser costretti a ridurla a pura descrizione dei comportamenti umani. Ma ora?
Il senso smarrito del gusto
Pur nella sua fallacia interpretativa, nella sua instabilità e nel suo localismo, il gusto è stato per secoli un riferimento, soprattutto nel mercato delle cose di valore estetico. Un architetto romano degli anni ’70 dello scorso secolo conosceva (più o meno) le aspettative dei suoi clienti borghesi, un torinese quelle ben diverse dei suoi conterranei, un geometra siciliano quelle, ancora ben diverse, dei suoi ecc. L’insieme delle preferenze, delle tendenze, degli orientamenti e dei miti si costituiva in effetti come un panorama molto articolato, adattissimo anche alle scorribande iper-analitiche degli Arbasino o dei sociologhi, ma in sostanza ben discernibile da ogni operatore. Oggi, e lo scrivo dopo aver visto, in televisione e sul web, centinaia e centinaia di casette con piscina, soggiorno open space, cucina con isola e home theatre in Texas, Alaska, Canada, Dubai, Giappone, Libano, Spagna, Argentina, Corea ecc., non so più se ci troviamo di fronte ad una pappa quasi unica con infinite lievissime differenze, ovvero ad un universo d’infinite difformità uniformemente vacue. Qualcosa che è ben difficile definire con la parola gusto, se per esempio la paragoniamo a quello già citato della borghesia romana per il modernismo (alla Moretti o alla Luccichenti) delle loro palazzine. Quest’ultimo era in ogni caso un orientamento, magari subalterno, non spontaneo, anzi subìto (come avviene per la moda) e pure spesso curiosamente incoerente (come raccontano gli arredi antichi pesanti e barocchi di quelle stesse palazzine razionali), ma identitario e agito intenzionalmente come affermazione di sé, o di classe. Quindi era cultura (diffusa, sociale) che possiamo forse giudicare mediocre, che però ci ha lasciato parti di città cariche di senso e che soprattutto aveva un corrispettivo attivo e responsabile: la critica.
La scomparsa della critica
Parola oggi quasi assente dalla scena, e che invece incarna (incarnava) quella radicale consustanzialità fra fare arte, progettare, riflettere, discutere, contrapporsi, confrontare, riferirsi alla storia umana, pensare e agire, da soli o insieme, nel mondo e nella politica, che è stato il vero nucleo vitale della cultura artistica europea dal Rinascimento (o da prima?) e massimamente nel ‘900. Chi ha avuto la fortuna di vivere in questo clima culturale, come marginalmente è accaduto anche a chi scrive, ne ha intuito pure i difetti: i protagonismi, gli estremismi e (aspetto assai vicino al nostro tema e notevole per la sua quasi completa, e certo non rimpianta, scomparsa) la costante tendenza a trasformare la dimensione militante della critica in una forzatura egemonica del gusto e del mercato del progetto e dell’arte. D’altra parte non si può che mettere a confronto la passione, la vitalità, l’impegno e pure l’allegria di allora con la piatta prassi professionale di oggi.
La rimozione dell’ideologia
Soprattutto non si può non ricordare con rabbia che è stata proprio la cosiddetta sinistra a liquidare con il lemma ideologia, inteso come parolaccia, l’idea etica e politica che l’esplorazione delle opzioni offerte dal proprio mestiere dovesse essere necessariamente declinata assieme alla costruzione (individuale e collettiva) di una magari provvisoria, evolutiva o parziale visione del mondo (weltanschauung). Dunque tutto, o quasi tutto, sembra sia stato rimosso: il mercato del progetto è gestito dai guru del real estate; quello dell’arte dai mercanti; gli artisti aspettano, sperano di essere notati; gli architetti professano in scorato isolamento il loro mestiere; gli storici studiano senza metter bocca, nemmeno un po’, sul presente; la politica è pura prassi della gestione del potere ecc. ecc. Ma è davvero così?
Eppure…
Non essendo poi così pessimista, vorrei far soltanto notare che gli strumenti di comunicazione che abbiamo ora a disposizione non ci costringono necessariamente alla trivialità con cui vengono di fatto usati. Anzi, sembrano perfettamente adatti a quel che non abbiamo ancora ricominciato a fare (vedi sopra): riflettere, discutere, contrapporsi, confrontare, riferirsi alla storia umana, pensare e agire, da soli o insieme, nel mondo e nella politica.
Immagine di copertina: “Libri!”, manifesto di Aleksander Rodchenko (1924)
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Nato a Roma (1944), è stato professore ordinario di composizione (1987- 2013 Palermo e Roma tre) e preside di quest’ultima sede dal 1997 al 2013. Componente del consiglio scientifico di Corsi di perfezionamento, master e dottorati, nel 2015 è stato nominato professore emerito. Ha un’ampia produzione scientifica e una lunga attività professionale, con più di duecento progetti architettonici e urbani. Membro dell’Accademia di San Luca, ne è presidente dal 2017. Nel 1991 ha ricevuto il premio internazionale della Biennale e nel 1996 il premio “Presidente della Repubblica” per l’architettura