© Michele Nastasi

Italia: o della narrazione in architettura

Italia: o della narrazione in architettura

Il padiglione nazionale e il doppio binario tra eloquenza del contenitore e allestimento di un “giardino di storie”

 

Published 1 dicembre 2021 – © riproduzione riservata

Si sta assistendo a un interessante quanto inconsueto ribaltamento dei ruoli nella storia delle grandi esposizioni e degli eventi più o meno globali. Senza voler entrare nella tematica della necessità/attualità di questo tipo d’iniziative, godiamo oggi di una sufficiente distanza storica e prospettiva sulle esposizioni internazionali e universali da poter registrare i cambiamenti avvenuti e trarne se non una visione, un’interpretazione.

 

Esposizioni universali, da luogo di sperimentazione a luogo dell’autoreferenzialità

Il grande luogo della sperimentazione, dal Crystal Palace (Londra, 1851) alla Tour Eiffel (Parigi, 1889), diventato al contempo per lunghi decenni occasione e necessità di autorappresentazione, quando non di propaganda, per i paesi partecipanti, aveva sempre riservato, con costanza quasi rassicurante, interessanti sorprese che, sfuggendo forse al controllo politico e comunicativo, ci sia concesso pensare, producevano piccoli e grandi passi nella storia dell’architettura.

Così nel XX secolo abbiamo pur sempre potuto ammirare l’Esposizione di Stoccolma di Erik Gunnar Asplund (1930), il padiglione Philips di Le Corbusier a Bruxelles (1958), le cupole geodetiche di Buckminster Fuller o l’Habitat di Moshe Safdie a Montréal (1967), il padiglione di Àlvaro Siza a Lisbona (1998), e potremmo continuare in una lista che ognuno può compilare secondo il proprio giudizio e interesse.

La grande avventura del Movimento moderno, con tutte le sue derivazioni e rivoli della storia che ci hanno portato fino all’oggetto architettonico firmato dalla star di turno, autosufficiente e rigeneratore con la sua sola presenza, gli ultimi decenni trascorsi, insomma, ci avevano abituato a considerare il linguaggio dell’architettura come autonomo, come aveva fatto ben prima quello dell’arte, e non costretto a un ruolo didascalico della realtà o di un’idea. Se dobbiamo comunicare che oggi piove non dobbiamo per forza scrivere con delle lettere che gocciolano; se un’architettura dev’essere portatrice di un messaggio, non deve necessariamente rappresentarlo letteralmente in termini spaziali.

Così credevamo e pensavamo che, in qualche modo, tutto ciò fosse anche una conquista.

 

Padiglione Italia: due narrazioni in un insieme frammentario

A Dubai, Padiglione Italia, ci troviamo di fronte a un edificio che narra con il proprio corpo, e lo fa in termini letterali, esperimento di una narrative architecture estrema che, in questi termini, pensavamo propria di parchi tematici di altro tipo, con buona pace del narrative design.

Sul Golfo, la storia che racconta il padiglione italiano è quella di tre scafi qui giunti e portati alti a coprire un’area che diventa la scena di un’altra narrazione che allinea le bellezze nazionali su un percorso lineare, voluto in un giardino di delizie ideale che si snoda – quasi uno scivolo per toboga – fra gli smilzi pilastri, fittissimi, che permettono al tutto di reggersi. E in effetti i tre scafi ci sono, e anche dipinti col tricolore, già piuttosto scolorito, in vero. Frange di corde riciclate, citazione di antiche gomene, cingono il tutto sul perimetro.

Le due narrazioni – quella dell’architettura e quella del “giardino di storie”, viaggio curatoriale alla scoperta delle eccellenze italiane – coabitano dando vita ad un insieme giocoforza affastellato e frammentario, nonostante la bontà e l’interesse dei singoli episodi sui quali si è puntato.

La storia dovrebbe concludersi con le barche che, rimesse in mare, ritornano in patria, cosa che ovviamente non avverrà, essendo stata, oltretutto, annunciata la permanenza del padiglione sull’area togliendo, di fatto, anche quella che era l’illusione di una temporaneità del gesto.

Da alcune parti si è levato il saluto ad una nuova via all’architettura inaugurata dall’Italia a Dubai, da altre non sono state risparmiate le critiche. Se la bellezza unisce, forse il disegno del padiglione divide. In ogni caso l’Esposizione universale, l’Expo, sembra godere di ottima salute sul Golfo, e il prossimo evento si profila fra soli quattro anni a Osaka: vedremo allora se questa strada avrà prodotto frutti e seguaci.

 

Padiglione Italia a Expo Dubai 2020
Architecture design: CRA-Carlo Ratti Associati e Italo Rota Building Office, con Matteo Gatto e F&M Ingegneria
Concept design: Davide Rampello

 

Note a margine: la parola ai protagonisti

Paolo Glisenti, Padiglione Italia Guide Book: “Il Padiglione Italia a Expo 2020 segna la profonda transizione verso l’architettura narrativa che oggi e, probabilmente, d’ora in avanti in tutti i grandi eventi globali ai quali assisteremo, darà forma alle identità nazionali nel loro percorso metaforico e reale tra storia e futuro, nel viaggio ininterrotto tra memoria e innovazione”

Davide Rampello, Padiglione Italia Guide Book: “Il racconto espositivo è pensato come un’esperienza, quindi una conoscenza intensa ed emozionale. Le installazioni, che segnano come pietre miliari il percorso, sono frutto di una progettualità che coniuga i valori simbolici e i valori estetici a “regole d’arte” dei vari manufatti”

Carlo Ratti, Padiglione Italia Guide Book: “…ogni sostanza porta con sé i propri modi di espressione formale. Il progetto del padiglione Italia testimonia il nostro impegno in questo senso, sperimentando con sostanze diverse e insolite – dalle alghe al caffè, alle bucce di arancia e al micelio”

Italo Rota, Padiglione Italia Guide Book: “Dal mio punto di vista il padiglione è una grande installazione sperimentale sul tema Naturale Artificiale, più che un’architettura in senso canonico, anche se ha le dimensioni di un edificio molto alto con una struttura sofisticatissima”

 

Autore

  • Alessandro Colombo

    Nato a Milano (1963), dove si laurea in architettura al Politecnico nel 1987. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati International. Nel 1991 vince il Major of Osaka City Prize con il progetto: “Terra: istruzioni per l’uso”. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura ove ottiene riconoscimenti. Nel 1998 è socio fondatore dello Studio Cerri & Associati, di Terra e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per il restauro e la trasformazione della Villa Reale di Monza e il Compasso d’oro per il sistema di tavoli da ufficio Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster presso l’Expo 2015

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