Per un pugno di like
Il direttore dal 2015 ripercorre la transizione digitale della testata e ragiona sulle questioni aperte
Published 5 dicembre 2022 – © riproduzione riservata
Zeitgeist
Come rendersi riconoscibili nell’incessante e smisurato flusso di comunicazione che ci pervade? Come fermare l’attenzione di un “webnauta” su un testo per qualche attimo, senza che subito in lui prevalga l’istinto di “scrollare”? Come porsi di fronte alla competizione della comunicazione in tempo reale, delle instant news, del tutto e subito? Come produrre contenuti che non sembrino, di lì a poco, già obsoleti? Come gestire il rapporto con i social networks? Sono interrogativi che sempre accompagnano (e talvolta inquietano, come le muse dechirichiane) il nostro impegno editoriale da quando, nel 2014, questa testata è diventata esclusivamente digitale.
Dopo l’ora più buia
Nella primavera di quell’anno, dopo 114 uscite, cessarono le pubblicazioni del mensile cartaceo. Sebbene avesse strenuamente provato a resistere alla crisi post 2008, alla fine l’editore Umberto Allemandi gettò la spugna, congedandoci. La diaspora della redazione e dei collaboratori fu inevitabile. Tuttavia, dopo alcuni mesi di smarrimento, e grazie al sostegno di alcuni partner commerciali che credevano nel progetto editoriale, nell’autunno dello stesso 2014 si posero le basi per il rilancio. Con qualche fisiologico ricambio si costituì una nuova redazione grazie all’apporto di più giovani collaboratori esterni fidelizzati negli anni, che risposero con un’entusiastica levata di scudi per la rifondazione. Si costituì un’associazione culturale di scopo (The Architectural Post), che stipulò con l’editore un contratto di licenza per la gestione, in completa autonomia, della testata. Eravamo editori delegati e dovevamo arrangiarci in tutto. In mano avevamo solo un sito web, fino a quel momento meramente funzionale all’edizione cartacea. Progressivamente, l’abbiamo trasformato in un contenitore organizzato tematicamente, affiancandolo a una newsletter settimanale che compendia tutti i contenuti pubblicati e che è divenuta, negli anni, il principale veicolo di scambio con i lettori.
Nostalgia canaglia
Alcuni di essi sono tuttavia rimasti legati al cartaceo. Ovvio. L’idea di permanenza, presenza e densità proprie di una pubblicazione a stampa non è paragonabile alla “liquidità” del web, per mutuare l’immagine di Zygmunt Bauman. E, talvolta, neppure i vantaggi dell’ipertestualità sono confrontabili alle connessioni garantite dalla contiguità di argomenti diversi nella stessa pagina o nello stesso fascicolo. Tuttavia, istituire tali confronti non ha gran senso. Di là da discorsi ecologisti, dobbiamo prendere atto di un cambiamento epocale e, per farlo, basta ad esempio attraversare un vagone ferroviario affollato: quanti viaggiatori consultano un dispositivo elettronico e quanti un supporto cartaceo?
Tradizione vs innovazione – click vs like
Un inflazionato aforisma di Gustav Mahler ci ammonisce: «La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere». Per noi questo significa proseguire in continuità la mission dell’edizione cartacea (riassunta nel precedente articolo da Carlo Olmo), cercando di mantenere l’autorevolezza che nel tempo ci è stata riconosciuta, pur sapendo di avere limitati margini di manovra (la vecchia massima dei giornali, «una parola in meno, un lettore in più», è paradossalmente tanto più vera oggi dove, a fronte dello spazio infinito di una pagina web, trattenervi un utente per più di 2 minuti è un’impresa titanica). Non per questo rinunciamo agli approfondimenti, magari a puntate, la veste con cui presentiamo le inchieste o i contenuti speciali: da sempre, un nostro tratto distintivo.
Perché crediamo che mai come oggi, nel mare magnum, sia necessario provare a fornire bussole, letture orientate, interpretazioni certamente falsabili ma strutturate. Insomma, fare opinione e alimentare un dibattito, che dev’essere quello di una tribuna e non dell’odierna arena gladiatoria dove si esibiscono gli impavidi – quanto spesso anonimi – leoni da tastiera. E poi, fare selezione, a costo di rinunciare a “coprire” certi argomenti se privi del nostro “inviato all’Avana”. Meglio tacere piuttosto che limitarsi a rilanciare un comunicato stampa (talvolta, senza neanche sforzarsi di andare oltre un copia/incolla). Perché c’è differenza tra il fare informazione e il mero veicolare delle informazioni. Tra un pubblico di lettori e non di soli followers.
Non si può ipotecare il futuro per un pugno di like (o, per parafrasare un altro titolo degli spaghetti western di Sergio Leone, per qualche like in più).
Immagine di copertina: Giorgio De Chirico, Le muse inquietanti (1917-19), particolare
Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l’Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 direttore.
Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del “Dizionario dell’architettura del XX secolo” per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con “Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi” (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l’interesse per la storia dell’architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito 79 delle 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l’associazione culturale Cantieri d’alta quota