Un salto culturale per porti, ex porti e waterfront

Un salto culturale per porti e waterfront

Viaggio architettonico tra casi studio, progetti emblematici e visioni di recupero e riuso dei margini d’acqua

 

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Published 30 aprile 2025 – © riproduzione riservata

A partire dagli Anni ‘80, la letteratura italiana ed internazionale sul recupero o trasformazione delle aree portuali dismesse e dei waterfront urbani ha prodotto una miriade di casi di studio – in particolare in Europa ma anche in Nord e Sud America, Sud Africa e Australia – a supporto della medesima narrazione di questo processo globale. 

 

Nuove relazioni con la città

Lo sviluppo dei porti industriali moderni ha creato una separazione fisica e simbolica tra la città e il porto che non era mai esistita storicamente. 

Deindustrializzazione, progressi tecnologici e la riconfigurazione del commercio marittimo mondiale con la globalizzazione, hanno prodotto vaste aree portuali dismesse, in molti casi di elevato valore storico. Il loro recupero ha cercato di eliminare tale separazione, ripristinando il collegamento perduto tra la città e il porto, e di conseguenza tra la città e il mare. Baltimora, San Francisco, Buenos Aires, i docklands di Londra, Cape Town, Barcellona sono tutti esempi di questo processo. 

Il patrimonio portuale dismesso è stato di conseguenza visto come un problema urbano da risolvere. Dove la trasformazione non è stata radicale, il recupero di queste aree e manufatti ha riavvicinato residenti e visitatori ai paesaggi portuali, in particolare le aree portuali storiche che sono tornate ad essere accessibili e fruibili, come l’Arsenale di Venezia o il Porto Antico di Genova. 

Tuttavia, secondo questa visione del riutilizzo delle aree e delle strutture non più necessarie per le attività portuali, la trasformazione si basa in genere sull’idea “porto fuori, città dentro”, ovvero sulla riconversione di tali aree ad uso urbano, generalmente legato alla cultura, ospitalità o tempo libero. 

Il patrimonio pubblico ex portuale viene pertanto riutilizzato a tali fini, ammesso che sia compatibile con essi. Il patrimonio storico, o le strutture legate ad usi leggeri e compatibili, trovano posto in questa visione. 

 

 

Tuttavia, le strutture portuali di carattere maggiormente industriale, o moderno, tendono invece ad essere rimosse in questi processi di riconversione. 

Quelle in uso – ad esempio terminal portuali e container adiacenti ad aree in corso di trasformazione – vengono celate, attraverso alberature o altri stratagemmi atti, da un lato, a proteggere come necessario il porto, ma, dall’altro, a nasconderlo alla vista. 

Il muro della vergogna di Valencia (nell’immagine), o la fascia di rispetto di Prà sono esempi (diversi) di questa strategia. Alternativamente, le funzioni portuali attive vengono incoraggiate a spostarsi, come nel caso della rigenerazione di Katendrecht a Rotterdam.

 

Ma questa narrazione è ancora una accurata lettura dei processi in corso di riutilizzo delle aree e beni portuali dismessi? Forse non del tutto. Alcuni casi recenti di recupero, ad esempio a Rotterdam e Genova, suggeriscono un diverso atteggiamento da parte delle istituzioni e del pubblico nei confronti del porto moderno e del patrimonio portuale. 

A Genova, il recupero del Porto Antico ha seguito il percorso descritto sopra, con gli spazi portuali che sono stati gradualmente aperti all’uso pubblico, e hanno visto l’introduzione di funzioni urbane come il Dipartimento di Economia dell’Università di Genova, l’Acquario o il Galata Museo del Mare. 

Nel caso genovese, la trasformazione del Porto Antico è stata facilitata dai grandi eventi, le Colombiane del 1992 e la Capitale Europea della Cultura 2004. Il graduale recupero del Porto Antico ha però creato nuovi spazi come il belvedere nella zona dei Magazzini del Cotone e l’Arena del Mare. Da questi spazi pubblici riconquistati, genovesi e visitatori hanno iniziato ad ammirare le luci e le attività del terminal container come un aspetto dell’identità e della bellezza di Genova. 

Il porto moderno non è più necessariamente percepito come un elemento negativo, un paesaggio industriale brutto o addirittura uno stigma di deindustrializzazione e degrado economico come nel caso di molte città portuali d’oltremanica come Hull, Liverpool o Glasgow.

Se questo contatto visivo e simbolico con le attività portuali si è semplicemente evoluto senza mai interrompersi in città come Singapore, dove la presenza del porto è sempre percepibile, il suo ripristino è una novità nel panorama delle città portuali italiane ed europee. Da un lato, la città sta promuovendo la ricostituzione di questo collegamento culturale con il porto. Dall’altro, i cittadini stanno cominciando ad apprezzare il paesaggio e il patrimonio portuale moderno.

 

 

Un altro aspetto di questo cambiamento riguarda le modalità di riutilizzo del patrimonio portuale dismesso. Se da un lato la letteratura fornisce innumerevoli esempi di riuso di tale patrimonio a fini urbani e non portuali (ad esempio musei e strutture culturali, hotel, usi residenziali), questo trend sta forse cambiando negli ultimi anni, con esempi di riutilizzo che sono molto più legati a funzioni produttive e portuali. 

È questo il caso del Makers District di Rotterdam, composto dall’area Merwe-Vierhaven e dall’RDM Campus. Parte della strategia di waterfront redevelopment Stadshavens, il Makers District è pensato come un distretto urbano dove funzioni come residenza e attività culturali si combinano con usi produttivi legati all’economia che ruota attorno al porto. 

Il processo di trasformazione dell’area, e riutilizzo del patrimonio esistente, non si basa quindi sull’idea “porto fuori, città dentro”, ma su una convivenza stretta tra città e porto. Il patrimonio portuale è riutilizzato in maniera rispettosa, al fine di mantenere il più possibile il carattere marittimo dell’area.

 

 

Queste recenti esperienze offrono spunti di riflessione fondamentali sul futuro delle aree e dei beni portuali. Stiamo forse assistendo ad un cambiamento culturale, a livello italiano quanto internazionale, per quanto riguarda la percezione del paesaggio e del patrimonio portuale, nonché del ruolo che questi spazi e strutture possono avere nel futuro delle nostre città. 

Non va dimenticato infatti il ruolo del patrimonio pubblico nella più ampia rigenerazione urbana e rivitalizzazione economica. Gli episodi di riutilizzo che celebrano il porto moderno e promuovono la coesistenza tra attività portuali e urbane potrebbero essere destinati a divenire prassi nella gestione futura di waterfront urbani più sostenibili dal punto di vista socio-economico e culturale, oltre che ambientale.

Immagine di copertina: America’s Cup all’Arsenale di Venezia (© Giacomo Barbaro, 2012)

Autore

  • Enrico Tommarchi (Venezia, 1983) è un urbanista (Università IUAV di Venezia) con un PhD in sociologia (University of Hull). Docente e ricercatore prima alla University of Hull e London South Bank University, e ora alla University of Dundee. Svolge ricerca nel Regno Unito, Italia, Paesi Bassi e Spagna, sul ruolo della cultura e dei grandi eventi nella rigenerazione urbana, sulle relazioni tra città e porti, e sul patrimonio culturale costiero e marittimo, e fa parte della rete Port City Futures.

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