Risalire a Monte Sole, silenzioso paesaggio del dolore
Visita al luogo dell’eccidio più sanguinoso della Seconda Guerra Mondiale, in comune di Marzabotto
MARZABOTTO (BOLOGNA). Quando si saliva a Monte Sole, nella seconda metà degli anni ’80, lo si faceva in religioso silenzio. Non che ci venisse imposto. Era un silenzio che trovavamo, quasi esso appartenesse a quelle macerie. Sembrava che fosse già là.
Pareva che ci accogliesse. Emanava dalle rovine e dalle pietre, un poco ordinate, appena consolidate. Dai resti della chiesa di Casaglia e dai muri del cimitero, ove si potevano ancora riconoscere i segni della mitragliatrice.
Immersione nella memoria
Per aggravio o privilegio d’anagrafe vivevamo in quella condizione storica irripetibile in cui le memorie di altri riverberavano vive nelle forme non ancora risolte del paesaggio, e quando si saliva a Monte Sole eravamo in grado di riconoscerle.
Erano gli anni di una riscoperta collettiva di Monte Sole. Luciano Gherardi (un sacerdote molto conosciuto a Bologna, già dai tempi di Lercaro) aveva da poco pubblicato (1986) un volume che era entrato subito in moltissime case: Le querce di Monte Sole.
Un libro pesante, per testimonianze e contenuti, con un saggio introduttivo dello stesso Dossetti. Il libro aveva anzitutto il merito di dire nuovamente Monte Sole, riportando l’attenzione sui luoghi della strage e non solo sul comune (Marzabotto) ove si era voluta concentrare la celebrazione della memoria nazionale, con il Sacrario del 1961.
Sul finire degli anni ’80, a Monte Sole ti accoglievano ancora solo le pietre e i memoriali posti da don Ilario Macchiavelli e dallo scultore Luciano Nenzioni un decennio prima: figure scabre, dai profili netti, realizzate in cemento o in terracotta e aggrappate alle pietre con graffe di ferro che non si scostavano nei colori e nel linguaggio dalla durezza del paesaggio e degli eventi per tentarne un avvicinamento.
Sull’altare del sacrificio di don Ubaldo Marchioni, nella chiesa di Casaglia ove furono uccise troppe persone, venne collocato un Agnello Pasquale. Nei pressi della chiesa di San Martino di Caprara – santuario dell’eccidio di un’altra intera comunità, poi distrutto e dato alle fiamme – i ferri contorti dell’inferriata della finestra sopra la porta della chiesa sono lo sfondo di un crocifisso.
Non erano didascalie: i segni di Monte Sole davano un linguaggio al dolore e una via sobria per un avvicinamento emotivo, per un approccio spirituale. Quasi un antidoto alla densità della memoria che lassù, altrimenti, genera uno spazio inabitabile, insostenibile. Per molti anni c’è chi ha fatto fatica a risalire a Monte Sole.
Umanizzare i territori del disumano
L’opera di don Ilario Macchiavelli e Luciano Nenzioni contribuì a riconquistare Monte Sole all’umano. Fu un cauto recupero di territori del disumano.
Di lì a poco la Comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da don Giuseppe Dossetti, inaugurò a Monte Sole una presenza stabile (1983/84), non solo nell’intento di custodire la memoria, ma anche di costruirla, in un impegno di studio e preghiera per la pace che, elevato da questi crinali ove la guerra decadde in sterminio (perché persino la guerra può degenerare), potrebbe divenire anche oggi speranza. Nel 1989 il territorio di Monte Sole divenne Ente Parco. Nei primi anni 2000, proprio dalla memoria dossettiana, sorse la Scuola di Pace.
Da quegli anni, sono risalito a Monte Sole solo recentemente, con in mano un nuovo volume a ricostruire non solo e non tanto la vicenda di Monte Sole, quanto piuttosto la sua ricezione (di Angelo Baldassarri, Risalire a Monte Sole, ZIkkaron, 2019).
Il paesaggio tuttavia è mutato. Il cimitero di Casaglia (nel 2018) è stato demolito e ricostruito per anastilosi anche nei segni della distruzione, con le nuove malte a smussare ogni efferatezza, in barba al valore di quel povero manufatto, meritevole di conservazione solo per abbracciare le spoglie di Giuseppe Dossetti e il sangue dei troppi civili massacrati nell’eccidio più sanguinoso della seconda guerra mondiale.
I muri ora stanno in piedi, ma hanno perso la capacità testimoniale che pur si prova di appiccicare loro addosso con discorsi e narrazioni di ottant’anni fa che mal attecchiscono su muri nuovi.
Meno drastico l’intervento sui resti della chiesa di San Martino, seppure anche qui la preoccupazione per la lettura filologica del costruito doveva lasciare il passo alla conservazione della sola memoria di quel maledetto 30 settembre del 1944, quando vennero fucilate tutte le persone (uomini, donne e bambini) che vi avevano trovato rifugio.
Unico intervento davvero appropriato quello sulla chiesa di Casaglia, ove il restauro è stato un mero consolidamento scevro da ogni concessione di natura archeologica, per lasciare tutto com’era dov’era il 29 settembre del 1944.
Troppi segni, troppe forme
Oggi i luoghi di Monte Sole rischiano di soccombere sotto i segni testimoniali, conseguenti alla molteplicità degli enti a vario titolo depositari e gestori della memoria.
In questi anni i bordi delle rovine sono fioriti in 770 “Gocce di memoria”, un progetto di steli esili ed effimeri che ha così ricordato ciascuna vittima della strage, e che è divenuto anche un’installazione mobile per promuoverne la conoscenza nei comuni e nelle scuole. All’insegna della permanenza, invece, l’ultimo segno aggiunto nel Parco di Monte Sole: il memoriale a don Giovanni Fornasini (beato dal 2021), attorno al cippo che già ne ricordava in modo austero il Sacrificio, il 13 ottobre del 1944.
Risalire oggi a Monte Sole significa chiedersi soprattutto se siamo capaci di memoria o solo di memorie.
La differenza segna la distanza tra rappresentarci come società o solo come (più o meno effimeri) collettivi o gruppi di interesse. Nel prossimo decennio la sfida non sarà quella dell’edificazione di nuovi memoriali, ma piuttosto quella di costruire la possibilità di un coordinamento nella narrazione con cui tutti dobbiamo fare memoria.
Immagine copertina: Monte Sole (dal sito web)
Nato a Bologna (1977), vi si laurea in Ingegneria edile nel 2003. È ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, ove nel 2008 ha conseguito il dottorato di ricerca in Composizione architettonica. Si occupa specialmente dei rapporti tra sacro e architettura, in collaborazioni formalizzate con la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna ove è professore invitato per seminari attinenti alle relazioni tra liturgia, paesaggio e architettura. Presso la Scuola di Ingegneria e Architettura di Bologna insegna Composizione architettonica e urbana, ed è stato docente di Architettura del paesaggio e delle infrastrutture. È collaboratore de “Il Giornale dell’Architettura” e direttore della rivista scientifica del Dipartimento, “in_bo. Ricerche e progetti per il Territorio, la Città, l’Architettura”