Non un anniversario, ma una storia ancora da completare
Gli ottanta anni dalla Liberazione radicalizzano la ricerca di una dissezione del corpus di avvenimenti, conflitti, sentimenti, narrazioni, rendendoli sempre più difficili da interpretare
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Published 20 aprile 2025 – © riproduzione riservata
Gli anniversari sono ormai la sanzione che l’avvenimento si celebra, ma non aiutano certo, a Croire en l’histoire (François Hartog, 2013), a credere nella storia. E gli ottanta anni dalla Liberazione radicalizzano la ricerca di una dissezione del corpus di avvenimenti, conflitti, sentimenti, narrazioni, rendendoli sempre più difficili da interpretare. E così si è ad esempio tornati a disquisire sulle parole, e su quale parola: guerra!
La polemica che Marco Mondini (L’importanza di chiamarla guerra, in “La rivista il Mulino”, n. 44, 2025) sviluppa nei confronti di un’intervista a Gustavo Zagrebelsky su “la Repubblica” (Annalisa Cuzzocrea, Zagrebelsky: vedo il passato in guerra con il futuro, del 25 marzo 2025) non è che l’ultima testimonianza. Se non si riesce a dare i nomi alle cose, quelle cose non esistono. Le silence de mots può coprire genocidi, non solo guerre, come nel caso del Rwanda, o può scatenare ogni forma di revisionismo.
E allora vale la pena di andare a riprendere chi le fonti della Guerra di liberazione ha studiato più a fondo: i due volumi di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991, 2006) e il dialogo tra Noberto Bobbio e lo stesso Pavone, Sulla guerra civile. La resistenza a due voci (2015), che raccoglie un dialogo trentennale sulle tre anime della Guerra di liberazione e i molti confronti che portarono entrambi ad accettare il sintagma “guerra civile”.
La storia – che è sempre anche del presente, persino quando l’originale (tedesca e francese) Storia del tempo presente si è ormai dissolta – ci pone una domanda cui non è facile dare una risposta argomentata, perché sul termine “civile” ormai sono piombate le semplificazioni e le banalizzazioni dell’attuale polemica politica, mentre “Resistenza” è rimasta quasi senza attenzione. Forse se non si vuole ridurre l’enorme letteratura che su quegli anni si è prodotta a mero scontro a fini di legittimazione di posizioni politiche attuali, è necessario tornare con strumenti diversi, a indagare come si manifestò la Resistenza, verso chi e cosa si espresse, le forme assai diverse che prese, come fu narrata in quegli anni (e manca un’indagine linguistica e semantica delle diverse resistenze che si realizzarono) e la sua ricezione nel corso di questi ottanta anni, come fu vissuta da chi vi partecipò e da chi, come cittadino la vide e la visse da fuori.
Per non ridurre un intreccio di ragioni e di sentimenti a formule (Carlo Galli, La guerra in formule, in “Filosofia Politica”, n. 1, 2025), sarebbero necessarie (un sogno a occhi aperti) la desistenza dalla strumentalizzazione persino accademica e una critica serena delle fonti.
E forse bisognerebbe aggiungere un passaggio che in Italia è stato davvero troppo poco studiato e che è rappresentato al meglio da Winfried G. Sebald e dalla sua Storia naturale della distruzione (1997), che, oltretutto, aiuta a capire come la rottura che la Guerra di liberazione produsse fu in parte assorbita da una “protezione “ (se fosse necessaria o meno è argomento bruciante) di quanti si salvarono non solo da bombardamenti, incendi, stragi, ma soprattutto dalle epurazioni che si produssero nell’immediato secondo dopoguerra, anche in questo con le narrazioni più disparate.
Il ritorno alla “normalità” non fu solo una forma di riappropriazione della vita, fu un’ambiguità voluta, perseguita e necessaria, atta a garantire una continuità che sarà negata dalla carta costituzionale e garantita negli apparati pubblici e privati che erano cresciuti in un altro progetto istituzionale, amministrativo e culturale: quello fascista.
La domanda che si pone oggi è come vissero la Guerra di liberazione, ma anche le vicende della guerra più in generale, i cittadini prima spettatori e poi chiamati a esercitare un diritto (di cittadinanza e rappresentanza) dopo più di vent’anni regime fascista. Se non si vuole una storia scritta non solo dai vincitori e dagli attori di quelle vicende, è necessario occuparsi anche del “coro” di un’opera lirica ancora senza autori. Quando chi protegge (chi ha bisogno di continuità e non della discontinuità che la carta costituzionale introduce) fa sì che le élite pubbliche e non private (dalla polizia ai ministeri) rimangano quelle.
La resistenza purtroppo è anche quella di chi protesse le élite degli apparati dello Stato e delle imprese chela guerra sostennero. Ed è su questa ambiguità e sui documenti che la testimoniano che andrebbe aperta una campagna di ricerca, senza pregiudizi e alibi di alcun genere. La resistenza prima convisse, poi si dovete misurare, a guerra “vinta”, con quelle élite, tanto che si potrebbe provocatoriamente ipotizzare una Liberazione incompiuta e l’inizio proprio in quel contesto sociale, politico e gestionale della separazione tra norme e azioni, tra carte e praxis, in primis quella istituzionale.
E forse allora ancora una volta avrebbe ragione il Pierre Bourdieu di Langage et pouvoir symbolique (1991), soprattutto in un caso come la Guerra di liberazione che incarna la rilevanza di un rapporto tra quei mots de passe, oggi più che mai da storicizzare, prima di avventurarsi in interpretazioni che non interpretano, ma strattonano documenti e fonti.
Immagine di copertina: tratta dalla copertina di “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza” (Claudio Pavone, Bollati Boringhieri, 2006)
Per gli 80 anni di Carlo Olmo
Nel 2024 il fondatore di questo Giornale ha compiuto 80 anni. Per l’occasione, alcuni tra i suoi più prossimi e affezionati allievi (Michela Comba, Filippo De Pieri, Sergio Pace, Edoardo Piccoli, Michela Rosso e Paolo Scrivano) gli hanno tributato un omaggio: una selezione di suoi 15 saggi – tra cui alcuni inediti e altri non facilmente rintracciabili – scritti nell’arco di un quarto di secolo, “all’interno di un cantiere intellettuale di straordinaria ricchezza, colto in un momento dialettico e “costruttivo” di particolare fecondità […]. Anni in cui la storiografia dell’architettura moderna ampliava e approfondiva i propri orizzonti e andava definendo il proprio rapporto con la filologia, inaugurava una stagione riflessiva sul rapporto tra Teoria e Storia, e si misurava anche con gli sviluppi della storia urbana” (dalla prefazione di Alessandro De Magistris). I saggi sono introdotti da brevi contributi di ciascun allievo responsabile della selezione, che forniscono le coordinate di contesto e le tematiche centrali entro cui hanno preso forma. Come sempre, nel magistero di Olmo contano le parole e le interpretazioni: un rigore scientifico che nulla concede all’immagine, al punto che il volume ne è privo, ed è aniconica anche la copertina.

Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell’architettura e della città contemporanee. E’ stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del “Dizionario dell’architettura del XX secolo” (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell’Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: “Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»” (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), “La città industriale: protagonisti e scenari” (Einaudi, 1980), “Alle radici dell’architettura contemporanea” (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), “Le esposizioni universali” (Allemandi, 1990; con L. Aimone), “La città e le sue storie” (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), “Architettura e Novecento” (Donzelli, 2010), “Architettura e storia” (Donzelli, 2013), “La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro” (Donzelli, 2016; con S. Caccia), “Città e democrazia” (Donzelli, 2018), “Progetto e racconto” (Donzelli, 2020)