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La montagna partigiana: Paraloup e altre storie

La montagna partigiana: Paraloup e altre storie

Geografia alpina tra sentieri, rifugi e il luogo simbolo dove è nata la Resistenza

 

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Published 14 aprile 2025 – © riproduzione riservata

 

I populismi demagogici e le dittature sono quasi sempre nati in pianura mentre la montagna, soprattutto alpina, è da secoli un laboratorio di autogoverno, di responsabilità, di solidarietà (Annibale Salsa)

 

Dopo l’8 settembre 1943 “andare in montagna” assume una diversa connotazione. Non significa scalare le vette, bensì concretizzare una scelta politica eversiva. La montagna è il luogo più idoneo per opporsi al nazifascismo. Qui nasce la Resistenza. Che, per forza di cose, deve lasciare meno tracce possibili, agendo di nascosto, tra le scoscese valli e le ostili cime, o nella macchia dei boschi (in Francia, la traduzione di “macchia”, maquis, sta proprio a indicare il corrispettivo della nostra Resistenza).

 

Sentieri della memoria

Oggi, mettersi sulle tracce fisiche della Resistenza significa soprattutto mettersi in cammino, lungo i sentieri della memoria. Itinerari che in tanti luoghi delle Alpi e degli Appennini negli anni sono stati tematizzati con nomi propri, nomi e cognomi (o pseudonimi) di Partigiani.

Una selezione dei più significativi è stata compendiata nel volume pubblicato per la ricorrenza del 70° anniversario dal Club Alpino Italiano (I sentieri per la libertà. Itinerari per conoscere le montagne della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, RCS MediaGroup 2015).

In attuazione del progetto europeo La memoria delle Alpi, dal 2003 al 2008 sono stati ripristinati, attrezzati o segnalati 95 sentieri tra Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta.

 

Rifugi bersaglio

Non pochi tra i 380 rifugi delle Alpi e dell’Appennino diventano snodo logistico per le manovre della Resistenza. Sul versante francese alcuni sono occasionalmente trasformati in ospedali, accogliendo le popolazioni in fuga. In quanto tali, sono bersaglio delle rappresaglie nazifasciste e subiscono devastazioni, anche quando sono solo presunti covi di ribelli (intorno ai quali occorre “fare il vuoto”, come si diceva in gergo poliziesco). Talvolta le devastazioni si devono a sbandati o, pensando alle razzie di beni mobili, agli stessi valligiani ridotti allo stremo.

I danni di guerra interesseranno quasi tutte le strutture dell’arco alpino. Perché anche a est, laddove le maglie militari sono più strette, qualsiasi rifugio sulla cui strada transiti una pattuglia incorre quasi sistematicamente in una depredazione o rappresaglia, magari anche solo per fare terra bruciata durante la ritirata. Alla fine il bilancio è pesante: 100 distrutti totalmente o parzialmente, 156 danneggiati. Anche in questo caso, alcuni conserveranno la memoria dei fatti nelle successive dedicazioni.

Ecco un breve tour tra i rifugi teatro di manovre partigiane o bersaglio strategico, tutti ritornati agibili dal dopoguerra, oggi meta di escursioni più o meno lunghe.

In Provincia di Cuneo figurano il Marchesini – Federici al Pagarì, in Valle Gesso (2627 m), e il Migliorero nel Vallone dell’Ischiator (2100 m), che vede il transito di brigate verso la Francia al fine di riorganizzarsi. In Val Pellice (Torino) l’ampia, ma nascosta Conca del Prà, è utilizzata per i lanci aerei di materiali da parte degli alleati. Al suo margine superiore si trova il rifugio Granero (2377 m), mentre nel 1950 verrà costruito nella parte bassa (1732 m) il rifugio in ricordo di tutti i caduti per la libertà, e in particolare di Willy Jervis, trucidato con altri prigionieri politici a Villar Pellice. In Val d’Ala di Lanzo il rifugio Gastaldi (2659 m), uno dei più antichi e prestigiosi del settore occidentale, lungamente presidiato da partigiani, è teatro di aspri scontri, prima di essere dato alle fiamme.

In Lombardia sono le strutture della Valsassina (Lecco) a pagare il tributo più alto: tra gli altri, soccombe il celebre rifugio Brioschi (2403 m), in vetta alla Grigna Settentrionale, a torto ritenuto base partigiana.

Più a est, sebbene si abbiano notizie di utilizzi partigiani – come per i rifugi Mulaz (2571 m) e Rosetta (2581 m) alle Pale di San Martino, o per il Bassano al Monte Grappa (1770 m), quartier generale della brigata Matteotti e della missione inglese, colpito dai cannoni tedeschi -, in genere i ricoveri vengono requisiti dalle forze di occupazione: come per il rifugio Albani in Valle Camonica (1939 m) e Livrio allo Stelvio (3174 m), presidio fisso della Hitler Jugend.

Infine, nei territori dell’autoproclamata “repubblica carnica”, dopo una cruenta battaglia viene incendiato il rifugio Fratelli De Gasperi nelle Dolomiti Pesarine (1770 m).

 

Ritorno a Paraloup

Appena quattro giorni dopo l’armistizio Dante e Alberto Livio Bianco, Duccio Galimberti e una decina di altri compagni organizzano la banda partigiana “Italia libera”, cui si unirà fra gli altri, a febbraio 1944, Nuto Revelli. Lasciata Valdieri, s’insediano presso la borgata Paraloup (1360 m), nel Vallone di Rittana, sulle alture allo sbocco delle Valli Stura e Grana. Da lì si controlla tutta la pianura: da Borgo San Dalmazzo (dove si trova uno dei quattro campi di concentramento italiani, per le deportazioni verso Auschwitz, e dove dal 2006 è stato allestito un toccante Memoriale), a Cuneo e fino a Torino. Primo riferimento della Resistenza, l’alpeggio diventa scuola di addestramento militare e di ricostituzione politica.

Istituita nel 2006, la Fondazione Nuto Revelli ne concepisce subito il recupero per farne, senza retoriche memorialistiche, un laboratorio, un luogo di ritrovo ove esperire i valori di convivenza, libertà e giustizia in chiave antifascista. Firmato dagli architetti Giovanni Barberis, Dario Castellino, Valeria Cottino e Daniele Regis, il progetto avviato nel 2008 contempla un mix di funzioni ricettive e culturali. Nel decennio scorso, le sobrie, ma eleganti, «scatole» di legno con tetto metallico, inserite entro i ruderi in pietra delle vecchie baite, fecero scuola, nonché incetta di riconoscimenti.

L’intervento procede per parti. Tra gli innesti recenti, nel 2018 s’inaugura l’unica struttura realizzata ex novo, il teatro all’aperto. Sfruttando il dislivello del terreno, il basamento del palco ospita una camera vetrata, generosamente aperta alla valle. Nel 2020 viene allestito il Museo dei racconti. Con fondi PNRR è ora in cantiere il recupero di un altro rudere, che entro fine 2025 sarà adibito a residenza d’artista. Ma una presenza creativa arriverà già prima, grazie al progetto Art of Remembrance, vinto nell’ambito del bando Creative Europe in partenariato con Liberation Route Europe Foundation, un progetto del Consiglio d’Europa che riunisce luoghi della Seconda guerra mondiale e della Liberazione, di cui la Fondazione Revelli fa parte.

E i costi? Davvero contenuti. Finora sono stati spesi 1,7 milioni per tutti gli edifici dell’intera borgata, arredi inclusi; danari racimolati nell’arco di vent’anni, a colpi d’innumerevoli piccoli finanziamenti da enti pubblici, fondazioni, bandi vari e progetti europei. Punto delicato, la gestione. Certo, conta la parte commerciale per far quadrare i bilanci, ma obiettivo della Fondazione è trovare un partner che condivida lo spirito civile e culturale dell’iniziativa e non pensi solo a rifilare polenta e salsiccia o a rimboccare le coperte ai molti escursionisti di passaggio. Con le celebrazioni di questo 25 aprile s’inaugura la nuova gestione, in alleanza con Germinale Cooperativa agricola di comunità che, nel paese di Demonte, laggiù a due passi, si occupa di agricoltura sociale, accogliendo anche abitanti in migrazione: sembrerebbe questa volta il soggetto giusto per un regime ibrido di cogestione multifunzionale, tutto da sperimentare.

Con l’aria che tira oggi, sarebbe ancora possibile concretizzare una simile visione? La direttrice della Fondazione Revelli, Beatrice Verri, non la vede così nera: «A livello istituzionale un’impresa come il recupero di Paraloup è stata molto appoggiata, il progetto nelle fasi iniziali ha goduto di una buona fiducia. Da un certo punto di vista, oggi l’operazione troverebbe terreno ben più fertile per attecchire, visto il dibattito molto vivo sulla rigenerazione delle aree interne, mentre quando partimmo fummo visti come mosche bianche, diciamo proprio un po’ dei folli, a voler creare un centro culturale ibrido nascosto sulle pendici della montagna. Piuttosto, il problema sta nell’entità dei contributi, ora molto più parcellizzati. Dunque è assai più faticoso raggranellare i finanziamenti per continuare le opere. Invece, c’è ancora molta strada da fare perché dagli abitanti delle valli Paraloup non venga considerata una riserva indiana, per combattere l’isolamento che è, in questo caso sì, anche una scelta di tipo politico. Siamo ancora lungi dall’essere percepiti come un bene comune che intende riaccendere i riflettori sui valori della civiltà contadina e della Costituzione nata dalla Resistenza».

 

Immagine di copertina: borgata Paraloup (© Alessandro Porracchia)

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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