Aimaro Isola: la bellezza contro le guerre e il prepotere degli individui
Incontro con un testimone della Liberazione: tra Resistenza, resilienza, violenza, sacralità, libertà e… futuro
LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI DELLO SPECIALE
Published 23 aprile 2025 – © riproduzione riservata
Il 6 maggio 1945, sten a tracolla, insieme ai partigiani della 105° Brigata Garibaldi, Aimaro Isola sfila in via Roma, nella sua Torino liberata, dove era nato il 14 gennaio di 17 anni prima. Nome di battaglia «Maro», non ha partecipato ad azioni militari e arriva da Bagnolo Piemonte (Cuneo). Qui, nel castello ereditato dagli avi, feudatari dei Principi d’Acaja, giunti dalla Savoia nel Trecento al seguito del Conte Verde, la sua famiglia ha ospitato durante la Resistenza il comando di Pompeo Colajanni (nome di battaglia, «Barbato»), garantendo un nascondiglio ai partigiani e rischiando grosso durante le retate e le rappresaglie nazifasciste. Con la sorella, più grande di due anni, annota in un diario tutti gli accadimenti.
Ora, a 97 anni, meravigliosamente portati, Isola trascorre nella tranquilla Bagnolo gran parte del suo tempo. Nonostante un calo della vista, che gli impedisce di dedicarsi a ciò che più ama (leggere, scrivere, disegnare), continua regolarmente a fare capolino nel suo studio torinese (Isolarchitetti), per verificare lo sviluppo dei progetti in corso. Su tutti, quello firmato con lo spagnolo Rafael Moneo per la conversione dei padiglioni di Torino Esposizioni in Biblioteca civica centrale (inaugurazione prevista l’anno prossimo). Lo abbiamo raggiunto per discorrere di resistenza-resilienza, violenza, sacralità, libertà e… futuro.
Architetto Isola, c’è un nesso tra l’aver preso parte alla Resistenza e alla Liberazione, e l’aver successivamente scelto di occuparsi di architettura?
Da liceale, mi immaginavo una carriera militare. Poi, entrando in Torino liberata e vedendo la città bombardata, con le case spaccate e sezionate, con i quadri ancora appesi, si poteva capire come erano fatte, come erano vissute. La percezione della sacralità della casa violata è stata un grande insegnamento. Questa sacralità, manifestata dalla violenza della distruzione e dell’odio, richiama tuttavia anche l’atto di fondazione dell’architettura, che è sempre, anch’esso, un atto sacrale quanto violento, solenne. E le rovine e i conflitti, con la loro storia, non possono non far parte del progetto.
Lei spesso ha parlato e scritto di «paesaggi partigiani». Che cosa intende?
Nella guerra partigiana il paesaggio rivela una sua effettualità: non semplicemente come luogo strategico, ma come spazio accogliente, popolato da abitanti che hanno sostenuto i partigiani, i quali diversamente non avrebbero potuto operare. I partigiani amavano il territorio come fatto umano, prediligevano l’aria aperta, le canzoni allegre; gli squadristi stavano invece annidati nelle caserme, tenevano la gente reclusa, erano sanguinari.
Quali significati avete voluto trasfondere nei due progetti per i Monumenti alla Resistenza di Cuneo e di Prarostino?
In entrambi i casi abbiamo inteso il monumento non come un oggetto che si osserva, bensì come un dispositivo che permette al visitatore di osservare, facendolo diventare protagonista di un vissuto, ponendolo al centro di un paesaggio. A Cuneo, il nostro progetto di concorso, che giunse secondo tra un centinaio di partecipanti e fu molto appoggiato da Bruno Zevi che sedeva in giuria, individuava un percorso, secondo una direttrice visuale, a sbalzo sul fiume, che puntasse verso il Monte Bisalta, teatro di vari scontri durante la Resistenza. A Prarostino, mentre i reduci partigiani, che ce lo commissionarono, si attendevano pressappoco una statua, pensammo una torre di semplici blocchi di pietra accatastati, sormontata da una piastra che dischiudeva un panorama a 360°, dalla montagna alla pianura liberata. Diventando parte integrante del monumento, l’osservatore poteva comprendere le testimonianze partigiane ma anche, cogliendo le trasformazioni nel frattempo avvenute nel paesaggio, volgere lo sguardo al futuro, a quello che lo avrebbe atteso.
Questo aspetto ci collega all’attualità. Se lo sarebbe mai immaginato di ritrovarsi, a distanza di tempo, di fronte a un clima politico e sociale intriso di nostalgie di regime, d’intolleranze, di disparità e prevaricazioni? Di sentire ancora spirare venti di guerra che agitano nuovamente anche il civilissimo Occidente?
Quando deponemmo le armi ci venne il dubbio che avremmo dovuto attendere prima di farlo, che non era ancora giunto il momento. Poi percepimmo il soffio della libertà e, con la Costituzione, abbiamo guardato oltre. Perché Resistenza, e resilienza, non sono state solo un movimento di difesa passiva; sono state un momento di apertura al futuro. Oggi tutto ciò sembra dimenticato. C’è la sensazione di aver abbandonato la spinta a pensare e costruire un futuro. Certo, per attenerci all’architettura, stiamo vivendo epocali cambiamenti di paradigma: basti pensare, nelle tecniche, all’intelligenza artificiale. Tutte queste tecniche di potenza debbono tornare a servizio dell’humanitas. Non dobbiamo tanto considerare quello che abbandoniamo, quanto capire ciò che ancora ci manca. Dobbiamo saperci affacciare sull’avvenire con serenità, consci che il mondo sarà completamente diverso.
Dunque resistenza e resilienza come capacità di concepire una diversa forma di libertà?
Dobbiamo ripartire dall’umanesimo, in particolare dall’Illuminismo e dall’Encyclopedie, nell’unione delle scienze, delle arti, dei mestieri e della filosofia. Questo implica una sfida sui diritti civili, che debbono essere sempre più allargati. Si tratta di una scommessa che non è ancora affatto vinta. L’avvenire dev’essere di continua liberazione. Tutti, non solo gli architetti, dovrebbero percepire che la bellezza non è solo una pelle, un «di più» che si conferisce al creato. È un fondamento. È la ricerca della vita. Troppe volte l’architettura ha giocherellato sulle teorie, dimenticando che il progetto dev’essere solo e sempre per la vita, per la bellezza di un mondo più etico e abitabile. Contro le guerre e contro il prepotere degli individui.



Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l’Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del “Dizionario dell’architettura del XX secolo” per l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con “Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi” (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l’interesse per la storia dell’architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l’associazione culturale Cantieri d’alta quota