Oltre i divieti, la città dei desideri

Oltre i divieti, la città dei desideri

Riflessione su libertà e condizionamenti negli spazi urbani

 

Published 3 marzo 2025 – © riproduzione riservata

È vero che gli alberi sanno scappare, in fin dei conti tutti lo sanno / Per questo i giardini sono recintati e chiudono a chiave i cancelli del parco / Ulivi costretti a marciare sul posto /Muovendo col vento soltanto le fronde (Lucio Corsi)

Aggiro, rallento, inciampo, devio, mi fermo, accelero: il nostro camminare per le strade urbane è affaticato da infinte piccole discontinuità, da un susseguirsi di segnali che il corpo interpreta come le note di un pentagramma. 

Siamo talmente assuefatti al paesaggio urbano che ci circonda da non renderci più conto di quanti divieti, ostacoli e dissuasori delimitino il nostro movimento. Ce ne accorgiamo solo quando viaggiamo in paesi vicini – dalla vicina Svizzera alla Francia – e percepiamo immediatamente un paesaggio meno frammentato e sincopato, più fluido e connesso, dove prevale il paesaggio sulle proprietà, la continuità visiva sulle distinzioni e i muri di separazione, il comune sul culto della privacy. 

Siamo circondati da divieti e impedimenti. Dispositivi di negazione e marcatori spaziali chiudono, sigillano, oscurano, confinano, isolano, separano, escludono, precludono, sterilizzano. 

Vietato giocare a pallone, vietato il passaggio alle biciclette, vietato consumare cibo per strada. Sempre e comunque, qualcosa è vietato: il gioco dei bambini nei cortili condominiali, l’assembramento davanti a un locale, sedersi sui gradini del sagrato di una chiesa, dormire su una panchina anche se non si ha un tetto. Vietato accedere a un parco di sera, vietata la vista pubblica di una mensa per i poveri. 

Già negli anni Settanta Henri Lefebvre ci spiegava come la città fosse il luogo per eccellenza in cui si trasmettono ordini – veri e propri comandi per l’azione – attraverso linguaggi e scritture urbane. Lo spazio cittadino è “sovraccarico di ordini, divieti molteplici, interferenze; è il significante di ciò che si deve o non si deve fare e, all’interno del messaggio sempre dissimulato del potere, esprime soprattutto ciò che è proibito: Lo spazio dà ordini ai corpi; prescrive o vieta gesti e percorsi” (La produzione dello spazio, 1976, p. 151). 

È un’esperienza che ciascuno di noi vive, ogni giorno.

 

Il diritto all’autonomia e all’accessibilità 

Muoversi in uno spazio urbano così irregolare e complesso richiede competenza motoria e una disinvoltura nel camminare che non appartiene a tutti, né in tutte le fasi della vita.

Il nostro matto Paese ci regala ben pochi comfort”, racconta con ironia Mattia Muratore (Sono nato così, ma non ditelo in giro, 2022): “Paghiamo il prezzo di vivere in città antichissime e cariche di storia: siamo sommersi dai sanpietrini, assediati da salite e discese, alle prese con mezzi di trasporto dell’anteguerra e intrappolati in una selva di barriere architettoniche il più delle volte inspiegabili e prive di senso (come i classici sei gradini prima dell’ascensore)”.

Chi non può camminare ha bisogno di protesi, di carrozzine quando necessario, ma anche di città progettate per essere accessibili, percorribili in autonomia e libertà. Perché anche le città, per essere davvero inclusive, devono essere abilitate con le protesi della partecipazione, dell’equità, del coinvolgimento progettuale delle persone più fragili. E la fragilità riguarda tutti: genitori con passeggini, anziani a mobilità ridotta, bambini, donne incinte, ipovedenti, persone autistiche.

Per chi si discosta dalla norma, per chi è più vulnerabile, si prevede sempre la presenza di un tutore, un accompagnatore disposto a sobbarcarsi il gradino di troppo, la fatica della salita, la necessità di bussare a qualche porta. L’autonomia nello spazio pubblico non è considerata una questione di interesse collettivo. Non lo è neppure per i bambini, che diventano cittadini autonomi sempre più tardi. Eppure, in città come Tokyo, i bambini vanno a scuola da soli fin dalla scuola primaria e la comunità li sorveglia, se ne prende cura riconoscendo il valore educativo dell’autonomia nello spazio pubblico.

Una città accessibile nasce da una comunità vigile, capace di guardare lo spazio con gli occhi di chi sta più in basso, di chi non vede, di chi è ipersensibile ai rumori.

Siamo abituati, noi neurotipici, a reggere ogni tipo di intensità: il traffico, il chiacchiericcio, il sottofondo costante che avvolge le città. Non ci disturba nemmeno la confusione visiva, perché fin da piccoli impariamo a destreggiarci tra immagini, luci, insegne, segnali. Abbiamo costruito spazi in cui teoricamente dovremmo trovare pace, ma che invece ci sovraccaricano. Ospedali illuminati a giorno, rumorosi, privi di privacy e di contatto con la natura. Mense e ristoranti dove il frastuono rende difficile persino conversare. Ecco perché Alberto Vanolo, nel suo La città autistica (2024), ci invita a ripensare il concetto stesso di diversità, incluse quelle neurologiche, per progettare città più vivibili, accoglienti e aperte a tutti.

 

Spazi sulla difensiva

Non si tratta solo del ritardo delle città nell’adeguarsi ai bisogni dei più fragili, ma della perdita stessa dell’idea di urbanità come dimensione collettiva e aperta a tutti. Quella stessa idea di qualità e bellezza diffusa, accessibile a chiunque, che ha reso celebri le città italiane – fatte di piazze, monumenti straordinari e paesaggi in cui natura e cultura si intrecciano da secoli – oggi incontra sempre più opposizioni.

Molte città si stanno dotando di un’architettura ostile, pensata per scoraggiare la presenza delle persone negli spazi pubblici. La vita pulsante della città genera in alcune fasce della popolazione e in certe componenti politiche un istinto di controllo che si traduce in misure repressive.

Il bestiario degli spazi ostili si arricchisce anno dopo anno: panchine con braccioli per impedire di sdraiarsi, spuntoni anti-seduta sulle soglie delle vetrine, dispositivi anti-skateboard, dissuasori ultrasonici che emettono suoni fastidiosi percepibili solo dai giovani.

Città un tempo simbolo di accoglienza (basti pensare allo Spedale degli Innocenti a Firenze) ora equipaggiano gli spazi pubblici con strumenti di controllo e misure di dissuasione sociale. Persino nelle cattedrali, soprattutto nelle città turistiche, sedersi è vietato, a meno di pagare un biglietto d’ingresso. E in alcuni casi, stare in piedi troppo a lungo senza un chiaro scopo può essere percepito come una minaccia all’ordine pubblico.

Ne La buona educazione degli oppressi (2019), Wolf Bukowski descrive il progressivo affermarsi dell’ideologia del decoro e della lotta al degrado, condivisa, sebbene in forme diverse, sia dalla destra che dalla sinistra. Le città devono apparire ordinate e pulite, come enormi centri commerciali; la movida deve essere disciplinata e confinata nei luoghi del commercio; i ragazzi che occupano spazi pubblici senza consumare devono sparire; i più poveri devono restare lontani dagli occhi di cittadini e turisti. L’ossessione per il decoro trasforma la città in un luogo di esclusione: si nega sistematicamente ogni spazio di socialità che non sia commerciale, si sgomberano gli spazi occupati, si investe in videosorveglianza, si scoraggia la presenza di giovani, non consumatori, poveri e senzatetto. Tutto questo rappresenta una negazione dell’idea stessa di urbanità, che storicamente ha caratterizzato le città europee come luoghi di ospitalità, di incontro e scambio tra diversi, di convivenza civile e cittadinanza inclusiva.

Ma se perdiamo questa urbanità, cosa rimarrà della nostra più autentica cultura civile? 

Oggi non basta più riconoscere le forme della negazione e della segregazione negli spazi. Se abbiamo imparato così bene a progettare edifici capaci di condizionare consumi e comportamenti collettivi; se le scienze contemporanee (in particolare le neuroscienze) ci permettono di comprendere meglio la nostra umanità per progettare meglio, allora la vera questione non è architettonica o urbanistica, ma politica. 

Dobbiamo avere il coraggio di un autentico ribaltamento: trasformare i divieti in desideri, le negazioni in possibilità, le norme acquisite in ascolto.

È in gioco la nostra libertà e la nostra felicità collettiva.  

 

Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi, Alegre, Roma, 2019

Elena Granata, Il senso delle donne per la città, Einaudi, Torino, 2023

Henri Lefevre, La produzione dello spazio, PGreco editore, Sesto San Giovanni (MI), 2018

Alberto Manolo, La città autistica, Einaudi, Torino, 2024

Mattia Muratore, Sono nato così, ma non ditelo in giro, Chiarelettere, Milano, 2022

Autore

  • Docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, è vicepresidente della Scuola di Economia Civile. È stata membro dello Staff Sherpa, Presidenza del Consiglio dei Ministri, G7/G20 (2020-21). Fondatrice di PLANET B, gruppo di ricerca intorno alla rigenerazione urbana, di ambiente ed economia civile. Articoli e ricerche su città, ambiente, territorio, sono raccolte in www.planetB.it. Tra i suoi libri recenti: Il senso delle donne per la città (Einaudi, 2023); Ecolove (ed. Ambiente, 2022), con Fiore de Lettera; Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo (Einaudi, 2021); Biodivercity (Giunti, 2019).

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