Downey: la vista è strumento, conta l’occhio della mente

Downey: la vista è strumento, conta l’occhio della mente

L’architetto statunitense ha fatto della cecità uno strumento di esplorazione dello spazio

 

Published 14 aprile 2025 – © riproduzione riservata

 

Molti sono i fattori che concorrono alla riuscita di un’opera architettonica. Tale processo è generato secondo metodi e contenuti valoriali differenti che dipendono dalla propria cultura, dal contesto e dall’epoca storica in cui si agisce, e anche dall’abilità del progettista di esprimere fisicamente la propria capacità di immaginare lo spazio. 

Elemento comune, che abbraccia trasversalmente le diverse modalità, è la capacità di manifestare empatia verso le persone che occuperanno quegli spazi, persone i cui corpi si misureranno con le dimensioni e le caratteristiche fisiche pre-viste dal progettista. 

Ancora di più se questo progettista – il protagonista dell’approfondimento è l’architetto statunitense Chris Downey – è affetto da una condizione fisica, la cecità, che sviluppa sensi e sensibilità in maniera diversa rispetto ai colleghi.

 

Il processo di immedesimazione 

Questa capacità di trasmutazione“calzando i mocassini di un altro”, come dicevano i nativi americani – diventa lo strumento più potente per modellare lo spazio intorno alle esigenze espresse da un individuo o da una comunità. Parafrasando l’essenza del “metodo Stanislavskij”, un architetto non dovrebbe fingere, ma vivere realmente la situazione attraverso il “magico se”, cioè chiedendosi come si comporterebbe se si trovasse in quella situazione, secondo un processo di profonda immedesimazione psicologica. Questa tecnica, raramente praticata già durante la formazione universitaria, ci spinge a riconsiderare il modo con cui esperiamo lo spazio e, di conseguenza, a ripensare come disegnarlo: accessibile per legge, inclusivo per scelta, l’ambiente in cui viviamo cela ulteriori sorprendenti potenzialità, perlopiù del tutto inesplorate.

Se comunemente tale immedesimazione si limita a un arco temporale ristretto, cosa succede invece quando il soggetto agente è a sua volta l’oggetto dell’azione? 

Ovvero, come opera un progettista portatore di disabilità, che della logica interpretativa sopra menzionata ne ha involontariamente assunto ogni elemento facendolo proprio per necessità? Conoscenza, reviviscenza, personificazione e comunicazione (le fasi codificate dal regista teatrale russo all’inizio del XX secolo) perdono di identità sfumando i confini, mentre la propria ineluttabile quotidianità fa della reviviscenza – l’attingere dal proprio bagaglio sensibile le emozioni che prova il personaggio – lo strumento più efficace e al tempo stesso originale.

“Occhi che non vedono”, diceva metaforicamente Le Corbusier riferendosi all’incapacità di comprendere la realtà dello spazio che ci circonda. Ma, in alcuni casi, proprio questa impossibilità di vedere apre nuove prospettive che vanno ben oltre la propria condizione fisica, anzi da questa sono sollecitate. 

 

Tecniche e strumentazioni

È il caso di Chris Downey, architetto e divulgatore statunitense che ha fatto della propria cecità uno strumento alternativo di esplorazione dello spazio. Nell’intervista, che recentemente ho avuto modo di fare, Downey afferma che “il progetto architettonico non è funzione di ciò che vedono gli occhi, ma piuttosto di ciò che vede l’occhio della mente, la sintetica visualizzazione intellettuale, il pensiero progettuale verso una soluzione di design. Perdere la vista significa solo perdere gli strumenti tradizionali di lavoro e visualizzazione. Alla fine, è solo una sfida di strumenti”. Una prospettiva, questa, che a mio avviso richiede però anche forza d’animo e una determinazione personale, specialmente nello svolgimento di un’attività professionale come quella dell’architetto.

Molti sono gli ausili tecnologici a disposizione di un progettista cieco o ipovedente. Stampanti speciali in grado di creare goffrature della carta o sovrapposizioni di strati di inchiostro, così da permettere una lettura tattile del progetto, o testi riprodotti automaticamente in Braille attraverso un comune file pdf per leggere relazioni tecniche e descrizione di contenuti o di spazi architettonici, mentre le sempre più diffuse stampanti 3D rendono possibili lo studio della modellazione a partire da dettagli di progetto. 

Bastoncini sagomabili di cera consentono di tracciare in totale autonomia grafici leggibili con i polpastrelli e “trasportare la propria mente nel luogo dove le dita esplorano lo spazio del disegno”. Queste tecnologie, è chiaro, aumentano notevolmente il grado di autonomia professionale anche se l’uso di alcuni dispositivi richiedono l’intervento di altri operatori (da qui la necessità di avvalersi di collaboratori in relazione alle diverse fasi di progetto, disegno e cantiere), ma il grado di autonomia appare sempre maggiore. 

Un capitolo dolente, invece, è costituito dall’assoluta impossibilità di partecipare alla progettazione in ambiente digitale, rispetto alla quale oggi non esiste alcun ausilio che consenta una piena autonomia operativa a questi professionisti, escludendoli di fatto da qualsiasi contributo non analogico.

 

Disabilità dei progettisti? Occasioni per riflessioni più ricche

L’approfondimento di tale problematica sarebbe auspicabile venisse estesa anche a coloro i quali convivono con altre forme di disabilità (sordità, autismo, assenza o limitazione di mobilità). 

Una cosa appare evidente: l’abilismo comporta non soltanto discriminazione sociale, ma una visione limitata e infruttuosa rispetto al contributo che gli architetti con disabilità possono fornire alla qualità del progetto. 

Accoglierne la differente sensibilità costituisce una formidabile occasione per arricchire l’opera architettonica di un valore aggiunto proprio mediante un sentire altro, un miglioramento del progetto basato non solo sulla conoscenza empirica, ma anche sulla capacità di leggere lo spazio in chiave differente e non scontata, dando vita a una convergenza di azioni che possono accrescere “l’esperienza di tutti, indipendentemente da come viene vissuta, se vista o meno, ascoltata o meno, percorsa o fatta rotolare. Ogni modalità divergente può sbloccare nuovi ed entusiasmanti fronti e possibilità progettuali, offrendo il potenziale di una nuova sovrapposizione creativa attraverso la quale l’esperienza complessiva viene ampliata, approfondita e arricchita”.

Immagine copertina: Planimetria stampata per lettura tattile (© azuremagazine)

Alcuni link per conoscere meglio la figura di Chris Downey

Architecture for the blind, Chris Downey, Architect

Blind architect designs for sound, feel | Chris Downey

An Architect’s Story: Chris Downey

Architect goes blind, says he’s actually gotten better at his job

Autore

  • Jacopo Gresleri

    Nato a Bologna (1971), si laurea in Architettura all'Università di Ferrara nel 1999. Consegue il dottorato di ricerca in "Architettura, Urbanistica, Conservazione dei luoghi dell'abitare e del paesaggio" al Politecnico di Milano, dove è attualmente docente a contratto presso il Dipartimento di Architettura e studi urbani. Ha insegnato all'Università di Ferrara e al Politecnico di Torino e dal 2008 svolge attività di Juror e Visiting Lecturer presso il New York Institute of Technology. Ha tenuto conferenze in Italia e all'estero ed è autore di saggi e monografie. La sua ricerca si concentra prevalentemente sulla progettazione architettonica e urbana e sul tema della casa, in particolare cohousing e abitare condiviso. Svolge attività professionale come architetto a Bologna.

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