Nulla scompare, tutto muta e si mimetizza

Nulla scompare, tutto muta e si mimetizza

Dalle ergonomie derivate alle eclissi funzionali, alcuni invisibili nella storia del design

 

Published 6 marzo 2024 – © riproduzione riservata

Come per ogni altro requisito funzionale, anche per la mutevolezza si potrebbero individuare diversi casi esemplari che precedono la disciplina del design e i suoi metodi strategici e intenzionali. Assecondando una chiave di lettura in particolare, tra il 1850 e il 1890 prese atto un vero e proprio “boom” di brevetti depositati negli Stati Uniti. Molti dei prodotti descritti in questo scenario, quali sedili con lo schienale reclinabile, mobili da giardino e pianoforti-letto con annessa toeletta (Charles Hess, 1866), erano caratterizzati proprio dalla capacità di mimetizzarsi, tramutarsi e compattarsi, sfruttando quelle che lo storico Sigfried Giedion avrebbe denominato le “mutevoli funzioni dei piani”: Giedion si riferisce alla capacità di abilitare vere e proprie funzioni, per affordance o accessibilità, semplicemente tramite la rotazione e il riposizionamento reciproco dei piani stessi in un prodotto. Già nel Medioevo, una tendenza simile era riscontrata per pura necessità di ottimizzare gli spazi a disposizione, come nel caso della cassapanca o del sedile con lo schienale ribaltabile, la cui “erede” denominata “dischbank” si sarebbe diffusa in Pennsylvania intorno al XVII secolo.

Durante il boom, tuttavia, a questa necessità e al conseguente estro (iper)ingegneristico vennero associati anche una serie di significati: da una parte dell’Atlantico, un motivo di orgoglio in quanto specchio del sogno americano, e invece, nel Vecchio continente, un puntuale motivo di scherno per la genesi spesso arbitraria e culturalmente irrilevante (almeno all’apparenza) di questi prodotti. Infatti, alla meritevole esplorazione creativa di giustapposizioni funzionali e di soluzioni ergonomiche che si adattavano alla fisionomia del singolo utente, corrispondeva una certa indifferenza verso la coerenza semantica e contestuale tra le rispettive funzioni coinvolte nella metamorfosi. Questa potrebbe essere raggiunta, se non per semplice buonsenso, tramite uno studio di affordance ed ergonomia proprio della transizione (mi piace chiamarla “ergonomia derivata”, ndr).

 

Innovazione statunitense: dalla mietitrice al lusso della carrozza-letto Pioneer

Poche furono le istanze in cui l’inventiva statunitense emerse, proprio in virtù di quella “sensibilità semantica”, in particolare i casi della mietitrice meccanica, ottimo esempio di multifunzione sequenziale raggiunta tramite molteplici iterazioni progettuali, e della carrozza-letto Pioneer brevettata da George Pullman nel 1864. In particolare, il merito di Pullman non avrebbe riguardato la mera applicazione dei principi meccanici (per cui assunse un team d’ingegneri che lo assistettero), ma la promessa di una nuova esperienza da garantire ai viaggiatori.

Questa sarebbe partita certamente dal sedile reclinabile, nel primo incarico avrebbe risolto la “scomparsa” del letto superiore con un sistema di sospensione in vicinanza al soffitto, che vi permetteva di fungere da area di stoccaggio per la biancheria, mentre nella Pioneer il letto si ribaltava contro la parete, ma si sarebbe davvero distinta per le dimensioni della carrozza stessa e per l’integrazione di decorazioni, dipinti e materiali pregiati, in grado di stimolare i clienti medio-borghesi non meno di quanto ci riuscisse la Queen’s Ware di Wedgwood.

Nell’ottica statunitense, tuttavia, questi marcatori di status non rappresentavano un tentativo di elevarsi illusoriamente al pari della nobiltà, bensì una manifestazione dell’ideale di democrazia e classe unificata.

 

In Europa, l’estro tecnico del design del primo dopoguerra

Non a caso, come negli Stati Uniti ebbe la meglio un approccio che conciliava l’estro tecnico con una forte sensibilità contestuale e semantica, anche in Europa, nel panorama del primo dopoguerra, alcuni progetti si distinsero, specularmente, per un’esplorazione che andasse oltre l’identità e il linguaggio visivo, criteri progettuali d’importanza relativa se contestualizzati alla realizzazione d’interi quartieri popolari.

Gli sforzi di Margarete SchütteLihotzky nel progetto di riqualificazione di Francoforte, Das neue Frankfurt (1926), erano incentrati sul principio di minimizzazione del lavoro domestico attraverso la prossemica, già teorizzato durante gli anni precedenti nelle pubblicazioni di Christine Frederick e Bruno Taut. Nella nota Cucina di Francoforte del 1926, questo principio si tradusse in una diatriba metaprogettuale specifica: la cucina avrebbe dovuto condividere l’ambiente del soggiorno o essere esclusivamente uno spazio operativo?

Apparentemente, la prima opzione si potrebbe considerare affine sia all’immaginario moderno sia a quello contemporaneo, in quanto associabile all’idea di open space polivalente. Eppure, per garantire praticità e facile manutenzione, la progettista optò per la separazione degli ambienti. Ciononostante, in una fase di studio dell’esperienza d’uso, Schütte-Lihotzky definì una gerarchia in grado di giustificare diversi livelli d’interazione, rispettivamente tra i singoli ambienti separati e tra i singoli elementi che componevano l’ambiente cucina, in maniera non dissimile dal ragionamento con cui Pullman distinse i requisiti del viaggio notturno da quelli per la consumazione dei pasti.

 

Nel secondo Novecento, la ricerca dell’equilibrio tra accesso ed eclissi della tecnologia

La diffusione dell’elettronica di consumo nella seconda metà del Novecento avrebbe ispirato un’indagine ancora in corso, ovvero il posizionamento di un prodotto su uno spettro tra il pieno e trasparente accesso dell’utente finale alla tecnologia che lo compone e una deliberata eclissi di questa tecnologia dietro l’interfaccia utente, a favore della facilità d’uso.

Dieter Rams, per esempio, non perse mai di vista la necessità per l’utente d’interagire con un prodotto onesto e al contempo semplice da interpretare. Questa direzione gli permise di sviluppare quell’iconico rapporto tra scocca e interfaccia utente: la prima, realizzata con materiali di qualità e piacevoli ai sensi, “nascondeva” l’elettronica in una giusta misura che non negava all’utente la fascinazione per la rilevanza tecnologica del prodotto; la seconda si affidava a forme ergonomiche e tratti percettivi accessibili, primi tra tutti  il forte contrasto tra elemento d’interazione e supporto e la gerarchia di utilizzo tra gli elementi, scandita dai colori d’accento.

L’attualità di questo tema è evidente perché lo stesso trascende le scocche e le elettroniche e si riapplica alle piattaforme e agli algoritmi: oggi la “scomparsa” della tecnologia si concretizza nella firma di un patto culturale tra utente e progettista, per cui il prezzo da pagare per l’intuitività e l’immediatezza degli ambienti, reali e virtuali, è l’affidamento dei propri input a una “scatola nera”. Più volte si è dimostrato possibile il raggiungimento di un equilibrio – sarà anche il caso delle istanze più recenti? Per mano di chi, di quanti o di cosa si potrà concretizzare una tale ambizione?

Autore

  • Simone De Pascalis

    Designer di formazione (Politecnico di Torino, 2016-2021), nel 2022 entra a far parte dell'ADI Design Index come membro del team, tutor formativo e progettista per il progetto "Tech4Inclusion", una collaborazione tra l'organizzazione no-profit Hackability e le Unità Spinali Unipolari di Torino, Alessandria e Novara. La sua tesi di laurea triennale, "The One Man Band", indaga il design multifunzione ricostruendone una storia e introducendone una tassonomia. 
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