Attilio Stocchi: Vermiglia e Umbracula come un racconto

Attilio Stocchi: Vermiglia e Umbracula come un racconto

 

Intervista al progettista dei due padiglioni realizzati in occasione della XXI Esposizione Internazionale della Triennale negli spazi pubblici di Milano

 

MILANO. Prosegue il nostro viaggio alla scoperta della XXI Esposizione Internazionale della Triennale; in particolare, tra le installazioni ed i progetti collaterali. Dopo “Arch and Art” nel giardino della Triennale, ci siamo fatti guidare all’interno di due magiche architetture, realizzate da Attilio Stocchi, che stanno caratterizzando gli spazi pubblici di Milano in questi mesi. La prima è l’Installazione Vermiglia, ovvero il Padiglione che rappresenta Milano per la XXI Esposizione, all’interno del cortile di Palazzo Reale; la seconda è il Padiglione Umbracula nei giardini all’ingresso del Palazzo dell’Arte, che rappresenta la Soprintendenza. 

Nel primo padiglione veniamo accolti in una nuvola rossa composta unicamente da tubolari metallici che non danno forma ad uno spazio chiuso ma ad un’atmosfera, fatta di suoni, movimenti, processi creativi e industriali della città di Milano. Al suo interno infatti troviamo la mostra Labor – Ogni lavoro ha un suono”, che racconta con alcuni monitor e con i suoni, la laboriosità milanese, soggetto scelto dall’Assessorato alle Politiche per il Lavoro del Comune di Milano per interpretare il tema della 21ª come Labor After Labor. Vermiglia perché questo colore ci riporta ad un capolavoro di Umberto Boccioni, “La città che sale” (1910) e al suo cavallo rosso dipinto in primo piano. Si può rimanere incantati dalla nuvola rosso vermiglio dall’alto delle finestre di Palazzo Reale – quasi in una visione futurista – oppure, esserne avvolti stando sotto di essa seduti rigorosamente su una sedia rossa (Kartell) ammirando i giochi di luci ed ombre che produce.

Il Padiglione Umbracula invece, letteralmente un riparo ombroso, ci porta in un’altra atmosfera. Protetto sotto gli alberi all’ingresso del Palazzo dell’Arte, il padiglione racconta di un perfetto dialogo tra architetture. Umbracula prende forma dalla natura, indaga le geometrie di foglie, spugne e restituisce un pergolato di rami metallici, animato dalle ombre che produce la struttura stessa e da quelle degli alberi che la proteggono. Al suo interno, sono esposte due figure del gruppo scultoreo “La disputa dei sette savi di Atene” (1960-1962) di Fausto Melotti. Non è però una teca chiusa; infatti, questa piccola architettura oltre al rapporto con il contesto permette anche alle due opere di confrontarsi con la natura e di vivere così i cambiamenti atmosferici. Un’architettura suggestiva che sembra quasi una scultura.

 

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Aurea, Palinsesto, Trafitta, Fluxum, Polla, Galaverna, Iride, Viridis, LucegugliaVoce, Bulbo, Lumen, Attesa, Cuorebosco, Librocielo, Seme, Vortice, Interiora, Expo, Favilla, Vermiglia, Umbracula: nasce prima il nome o il progetto?

Nascono spesso prima i nomi. Ho sempre pensato che il nome fosse il destino di ogni cosa. Credo purtroppo alla fine di essere più esperto di etimologia che di architettura. Nella parola c’è spesso il fine ultimo delle cose e forse anche dei progetti. Vittoriano Viganò era solito dire «se avete chiaro il titolo, poi viene la tesi». Io credo fermamente che, finché il nome non si è chiarito, non si riesce ad andare avanti col progetto. Un esempio concreto: era da una quindicina d’anni che volevo costruire “una nuvola”. Nella piazza Polla a Spirano avevo provato a farla come fosse un pergolato sopra una vasca, poi ho cercato di realizzarla in dialogo con “la nuvola” del Duomo di Milano, poi per una chiesa a Venezia. Ma non ci sono mai riuscito. Quando, d’incanto, questa nuvola è diventata Vermiglia, cioè il cavallo di Boccioni, allora è nata. Il nome dà la spinta: è il movimento ed è anche il fine del progetto. Non riuscivo a costruire la nuvola: l’ho raccontata in mille modi. Quando ho capito che poteva essere l’anima di questo animale di Boccioni, si è collegato ed inverato tutto. La collaborazione con Kartell si è concretizzata anche per quel nome che evoca quel magnifico rosso, molto vicino al marchio. Il nome realmente reifica spesso il processo di costruzione dell’architettura.

 

Dunque le piace scovare dei nomi e raccontare delle storie. Però non scrive dei racconti o dei libri: realizza delle architetture. Perché?

Credo di aver imparato da Jean Nouvel – che ho conosciuto bene – questa cosa che mi diceva spesso: «Io non ho mai disegnato prima, invece ho sempre scritto». Per ogni mio progetto, avrò almeno cinquanta cartelle di testo, come fosse la sceneggiatura di un film. Da queste storie potrebbe a volte credo nascere anche un film. Facendo l’architetto nascono delle metamorfosi di spazi. Lo spazio è il luogo per la messa in scena della parola e a sua volta la parola fa nascere un racconto. Data una parola e un racconto attraverso un processo di metamorfosi si può pensare davvero di creare uno spazio. Quando si racconta una fiaba ad un bambino, si costruisce un mondo. Quando riesco ad affabulare il committente mi chiedo: ma davvero ci ha creduto? Sono stupefatto anche io dell’incantesimo che la parola genera.

 

I due allestimenti dialogano tra loro o raccontano due storie diverse?

Vermiglia è un padiglione temporaneo, Umbracula è pensato invece come permanente, dunque ha in sé una calma molto diversa dalla tensione emanata dal primo. Sono due storie diverse ma c’è certamente un legame tra i due padiglioni. Mi è sempre piaciuto pensare che padiglione deriva dal latino papilio, ovvero farfalla. Gli antichi romani vedevano i padiglioni dell’accampamento dall’alto e li paragonavano alle farfalle. Gli antichi vedevano il padiglione non come un edificio che dialogava con il mondo minerale ma con il mondo vivente. Per continuare nella metafora: Vermiglia è un cavallo e Umbracula una spugna. Ho voluto sperimentare in entrambi la non provenienza dal mondo minerale.

 

Sono architetture animali?

Entrambi credo che nascano da un soffio vitale (dal greco anemos: vento, soffio vitale). Dunque sono architetture animali. L’etimologia di vermiglio deriva dal latino vermis, verme, l’animaletto dal quale si traeva il colore: mi piace pensare che la maggior parte dei “nomi delle tinte di rosso” deriva dalla morte di un animale. Il vermiglio anticamente era fatto coi vermi, poi non si riuscì più a realizzarlo così e si è prodotto con il cinabro, solfuro di mercurio. Il colore era animale, ma poi divenuto minerale. Invece il cremisi, il kermesse deriva dallo schiacciamento della cocciniglia del fico d’india e la porpora dalla conchiglia che porta questo nome.

 

Che parte hanno le persone nel suo progetto? Molte volte racconta delle storie, ma in Vermiglia e Umbracula è tutto silente.

Per i visitatori dei due padiglioni, la prima preoccupazione è stata – svolgendosi la XXI Triennale in primavera/estate – di farli stare in ombra. Da una parte ho realizzato un pergolato rosso, dall’altra una umbracula argentea. Per quanto riguarda il racconto sotteso, non sono storie che andavano raccontate ma solamente vissute. Chi visita Vermiglia non deve neanche sapere necessariamente che il tutto trae spunto dal cavallo di Boccioni. La cosa importante è che il visitatore si emozioni.

 

Vediamo le sue architetture quasi come sculture e opere d’arte. Possono essere interpretate ma non devono essere raccontate. È meglio poter immaginare che essere indirizzati. Si sente più architetto o artista?

Architetto. Soprattutto per la scelta dei luoghi. Le mie opere sono legate ad un luogo e non le si può portare in giro come fossero sculture. Ho quasi sempre avuto la fortuna di poter scegliere il luogo. Non credo poi nella parola artista. Esiste l’opera d’arte che è un raro risultato di un processo della pittura, della scultura e dell’architettura.–

 

Farebbe un allestimento senza parola?

Per diversi anni ho fatto allestimenti in cui la voce aveva un ruolo fondamentale: CuoreBosco, Librocielo, Favilla. Se si realizza un’architettura lavorando anche sulla parola il rischio è di avvicinarsi pericolosamente al teatro. A San Fedele, con CuoreBosco andava in scena una vera e propria rappresentazione. Mi sono reso conto che iniziavano a chiamarmi anche dall’estero per lavorare in un campo prossimo a quello del teatro e ho risposto – a malincuore – no! Volutamente in questi ultimi lavori non ho fatto nulla con la voce. La direzione è stata di andare verso il silenzio.

 

Tanti quadri di Boccioni sono nati dalle viste che aveva dal balcone delle sue case. Lei da cosa ha preso ispirazione per la nuvola?

Lui aveva preso casa al numero sette, io abito al numero undici di via Castel Morrone. Ho scelto quella casa proprio per questa coincidenza, e per quel bellissimo quadro – di lui con il colbacco nero e lo sfondo della città – dipinto proprio dal balcone tra Castel Morrone e via Goldoni.
Quando ho pensato a Vermiglia ho progettato la struttura pensando a come si doveva vedere dall’alto, da un aereo o da un balcone. In uno spirito futurista.

 

Qual è il suo rapporto con l’arte, visto che da una parte abbiamo Boccioni e dall’altra Melotti?

Studio poco l’arte e l’architettura. So che questo è un limite. Preferisco studiare altri mondi: minerale, animale e vegetale. Attingo da una fonte diversa: affinché l’acqua sia differente da quella con cui lavoro. Se si guarda all’arte c’è il rischio di plagio; se si osserva una spugna c’è più possibilità di fare del nuovo.

 

Per approfondire

 

Chi è Attilio Stocchi

attilio stocchiNato nel 1965, vive e lavora a Milano. La sua attività progettuale – dagli spazi aperti alle metamorfosi di monumenti, dai luoghi per l’arte ai sistemi ambientali, dagli allestimenti alle installazioni – traccia un percorso di ricerca sperimentale in cui la parola e l’ombra sono frammenti nel processo di costruzione dell’architettura. Parte delle sue realizzazioni sono raccolte in un articolo monografico del primo numero di “Inventario” (2010) diretto da Beppe Finessi. Durante questa attività di sperimentazione ha collaborato con vari artisti tra cui musicisti (Luciano Berio), pittori (Mimmo Paladino), scultori (Iginio Balderi) e sceneggiatori (Tonino Guerra).

Crediti delle installazioni:

Mostra Labor – Ogni lavoro ha un suono
Installazione Vermiglia
(Corte di Palazzo Reale)
Fino al 12 settembre 2016
Progetto: Attilio Stocchi
A cura di: Triennale di Milano e Assessorato alle Politiche per il Lavoro di Milano
In collaborazione con: Kartell

Mostra After
Padiglione Umbracula
(Triennale di Milano)
Fino al 12 settembre 2016
A cura di: Antonella Ranaldi e Fulvio Irace
Progetto: Attilio Stocchi
Totem: Italo Lupi
In collaborazione con: Soprintendenza belle arti e paesaggio di Milano in collaborazione con la Direzione generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane, il Segretariato regionale del MiBACT per la Lombardia e Città Metropolitana di Milano

Molti sono i progetti collaterali che in questi mesi stanno caratterizzando la XXI con mostre e installazioni, tra queste segnaliamo:

La casetta del viandante (Corte dell’Università degli Studi di Milano) a cura di Marco Ferreri
con i progetti di Michele De Lucchi, Marco Ferreri, Stefano Giovannoni, Denis Santachiara

Le architetture dell’industria. Un itinerario tra luoghi e storia della Pirelli (Pirelli Headquarters) a cura di Fondazione Pirelli

Le età del Grattacielo. Il “Pirelli” a sessant’anni dalla posa della prima pietra (Grattacielo
Pirelli) a cura di Alessandro Colombo con Paola Garbuglio, Francesca Rapisarda

Patrick Tosani. La forma delle cose (Museo di Fotografia Contemporanea) a cura di
Roberta Valtorta

Terra (Triennale di Milano) a cura di Marco Ferreri

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