Grotte e falò per il layout dei workplace
Nel libro di Ron Friedman l’importanza di spazi diversificati per migliorare benessere mentale, produttività e coinvolgimento dei dipendenti
Published 28 ottobre 2024 – © riproduzione riservata
Attraverso il libro di Ron Friedman possiamo intuire con facilità che cosa significhi aprire la porta alla ricerca scientifica quando si progettano gli spazi del lavoro. The Best Place to Work (Penguin, 2015, pp. 352) è brillante ma anche sistematico nell’indicare gli elementi oggi irrinunciabili nei luoghi di lavoro. Conversando con Friedman, lo psicologo ci suggerisce, però, «Che il più cruciale di tutti è l’inserimento nel layout di grotte e falò. Senza questi, qualsiasi spazio ufficio è destinato a essere azzoppato». Una bella metafora per sottolineare come, oltre alla varietà di profili neuropsicologici, nel luogo di lavoro si sviluppino molte attività. Alcuni di noi possono desiderare di ritrovare, in alcuni momenti, dei luoghi silenziosi, altri desiderare ambiti più vivaci. Adottare una simile strategia permette di pensare agli estremi opposti prendendosi, in realtà, cura di tutti.
Il libro sviluppa un percorso in tre parti, unite da una visione centrata sulla salute mentale come innesco della salute aziendale. Emerge con nitidezza come il disegno dell’ufficio sia legato profondamente a un cambiamento strutturale nelle relazioni umane. Non solo: è l’idea stessa di lavoro a essere rielaborata, come quella di leadership e di gruppo. Il primo capitolo si focalizza sulla ragione per cui una buona azienda dovrebbe premiare il fallimento. Questo invito potrebbe sembrare controintuitivo ma, nell’economia del sapere, il contributo soggettivo viene scoraggiato se non si accetta, come regola d’impresa, che chi non prova non sbaglia mai. I grandi innovatori vengono sempre ricordati per le scoperte, mai per i mille errori commessi nell’approssimarsi al successo. Eppure, non si producono cambiamenti se non attraverso prove ed errori.
Il testo si concentra poi sul disegno dell’ufficio. Un aspetto che con precisione viene ricordato è il ruolo della dimensione evolutiva dell’uomo. Senza comprendere profondamente i bisogni psicologici che si sono consolidati nel corso dello sviluppo umano, rischiamo sempre di esporre le persone a situazioni di stress. Nella savana africana, il paesaggio dal quale proveniamo tutti noi Sapiens, come elemento saliente troviamo le chiome delle acacie. Secondo la Prospect and Refuge Theory sono queste che, proteggendo i Sapiens, crearono le condizioni necessarie alla sopravvivenza dei nostri antenati. Un ufficio dovrebbe creare ambiti e configurazioni per dare lo stesso senso di sicurezza di quelle chiome, creando luoghi dai quali vedere il mondo fuori muoversi senza il pericolo di essere sorvegliati.
Un carattere dell’ufficio che, nel moderno open space condiviso, sembra dover scomparire è il territorio personale. Ognuno di noi avverte, però, il bisogno profondo di trasferire nello spazio parti della propria memoria, di manipolare oggetti, arredi e finiture che gravitano nel nostro intorno. Il termine agency condensa bene il bisogno di esprimere la nostra necessaria libertà di segnare il luogo. Nell’appendice del volume sono citati esperimenti con i quali sono stati misurati gli incrementi di produttività connessi a questo aspetto. I dati possono essere sorprendenti. Non esiste dubbio sul fatto che sentire familiare il territorio intorno al nostro corpo, nel luogo di lavoro, produca benefici economici per nulla trascurabili.
Il lavoro di Friedman si sposta poi sullo sviluppo dell’ufficio moderno e sul ruolo degli arredi. Ad esempio, mai arredare le sale riunioni con sedute rigide: la rigidezza dell’oggetto che viene a contatto con il corpo si traduce, infatti, nella rigidezza delle dichiarazioni. Da Harvard al MIT, fino a Yale, diversi gruppi di lavoro lo hanno dimostrato.
La storia dell’ufficio moderno traduce nel layout il taylorismo tipico della fabbrica fordista. Una catena di montaggio umana fatta di schiene ricurve su un’infinita serie di scrivanie tutte uguali. Robert Propst, nei primi anni ‘60 inizia la rivoluzione che porterà al cubicolo, The Action Office. L’idea era quella di restituire una dimensione più privata della scrivania, meno rumore e distrazioni nella visione periferica, con maggior controllo sulle proprie attività. Intorno alla scrivania si elevano perciò delle pareti che schermano su due o tre lati chi siede al tavolo. Verso la fine della sua vita, però, lo stesso designer, come ricorda Friedman, fu costretto a definire le modalità con le quali era stata adottata la sua invenzione una “monolitica follia”. Le aziende avevano introdotto il modello con lo stesso massivo approccio fordista della scrivania singola, isolando completamente dentro a recinti individuali le persone, e addensandole come in alveari. La reazione produsse un ritorno all’open space con le conseguenze di sempre: esposizione totale, al rumore e alla vista di tutti. L’ufficio privato, per una o poche persone, rimaneva un archetipo riservato a poche figure apicali delle aziende.
Chiudendo l’analisi e tornando al presente, l’autore ricorda come la dimensione collaborativa, oltre a essere co-essenziale al nostro benessere mentale, non può essere promossa da questo o quel modello: ufficio privato versus Action Office, o scrivanie condivise. La soluzione ideale passa per una calibrata composizione di tutti e tre i modelli, perché molto variabili sono le condizioni e i bisogni espressi dalle diverse attività svolte nell’ufficio.
Nell’economia dell’informazione, oggi, sono poche le attività completamente ripetitive. Il coinvolgimento dal basso, il contributo di chi lavora diventa sempre più decisivo per il successo delle iniziative economiche. Friedman ricostruisce in una sezione del libro come, in modo solo apparentemente paradossale, le scelte migliori possano maturare in modo inconsapevole, spostando temporaneamente l’attenzione. Dentro gli uffici, quindi, il gioco e la giocosità diventano elementi chiave nella costruzione della comunità professionale. Spazi e luoghi per sviluppare attività più legate al tempo libero, alla cura del corpo, al divertimento puro, sono tasselli chiave del progetto. Anche per un’altra buona ragione: il movimento del corpo, anche piccoli esercizi fisici, innescano il rilascio del BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor), che protegge l’area ippocampale con dimostrati benefici sulla memoria. Memoria, apprendimento e movimento corporeo sono legati dall’alba dei tempi, come molte ricerche citate nel libro documentano.
L’autore chiude il suo lavoro citando una ricerca di Gallup sul senso d’ingaggio percepito dai dipendenti delle società. Il dato è molto preoccupante: il 70% degli intervistati non si sente coinvolto dalle sorti della propria azienda. Tra questi, il 18% dichiara di sentirsi actively disengaged, o detto altrimenti, opera in direzione opposta al benessere del proprio datore di lavoro. Non sarà un ufficio nuovo a cambiare questa situazione, certo. È altrimenti chiaro, però, che il cambiamento della strategia aziendale in grado di ridare ruolo e senso all’operare della comunità attiva nel perimetro dell’impresa non può non passare anche per un ripensamento radicale del workplace.
Immagine copertina: Robert Propst, The Action Office (© Herman Miller)
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Architetto, a Milano guida TA TUNING ARCH, società dedicata all’applicazione delle neuroscienze al progetto architettonico che vanta interventi nel settore dell’housing sociale, delle residenze per anziani, ospedali, aeroporti, logistica, scuole, uffici. Ha fondato e dirige NAAD Neuroscience Applied to Architectural Design, ad oggi nel mondo il primo Master internazionale nato sullo stesso tema, all’Università Iuav di Venezia. Ha co-fondato la nuova rivista «Intertwining», sul rapporto tra scienza, cultura umanistica e architettura, edita da Mimesis International. Ha pubblicato “L’architettura delle differenze” (2013) e “Tuned Architecture” (con Vittorio Gallese, 2016), oltre a saggi e articoli in varie riviste d’architettura. Sempre presso Mimesis è stato pubblicato “Tuning Architecture with Humans” (2023)