Germania
Unbuilding Walls. From Death Strip to Freespace
I muri dividono e rompono la continuità. Non realizzano un “freespace”, ma esattamente il contrario: 2 realtà contrapposte. E la vicenda tedesca lo ha dimostrato con il più tremendo muro della recente storia europea. Ma è proprio il Padiglione tedesco alla 16. Biennale – 28 anni dopo il 1989 – che prova a fornire nuove e alternative dimensioni e direzioni.
Entri nel padiglione dei Giardini e l’atmosfera completamente bianca è interrotta da alti pannelli neri che ti accolgono. Sembra un’installazione b/n, rigida e muta come solo un muro può essere. “Ma non sono muri, sono frammenti”, è l’avvertimento dei curatori: un gruppo interdisciplinare composto da Graft Architects (Lars Krückeberg, Wolfram Putz e Thomas Willemeint) insieme ad una politica, Marianne Birthler. Solo entrando nella foresta di muri e girando lo sguardo si può cogliere la ragione della presenza tedesca a Venezia.
Lo stesso titolo – Unbuilding Walls. From Death Strip to Freespace – spiega efficacemente approcci e obiettivi: l’architettura è qui intesa come uno strumento per capire cosa succede nella società e può aiutare a mitigare le situazioni di conflitto. È possibile demolire fisicamente i muri ma le loro ombre (rappresentate da inserti neri sul pavimento) spesso restano e impattano più a lungo. In Germania, ma non solo lì, alcuni processi si presentano così nella loro difficoltà: e il lato B del padiglione li racconta attraverso una serie di casi-studio che vengono comunicati con pannelli (colorati questi, a costruire una sensazione di contrasto, anche se non particolarmente suggestivi o innovativi nel linguaggio con cui sono composti) e video in cui alcune persone (“perché alcuni progetti sono sviluppati dalle persone, non dagli architetti”) parlano di muri e di nuovi possibili orizzonti.
Nell’abbastanza ricco catalogo di casi (sviluppati grazie a un gruppo di giornalisti che ha viaggiato alcuni mesi in tutto il mondo alla ricerca di muri e confini), 4 progetti esemplari contribuiscono a trasmettere la complessità del tema: sono Axel Springer Campus a Berlino (dove OMA raccoglie e attualizza i fili della storia e dell’architettura, intrecciandoli con la narrazione della divisione della Germania), Checkpoint Charlie (l’immagine più potentemente simbolica della Guerra Fredda e uno dei più visitati luoghi berlinesi, a testimonianza del fatto che persiste un fortissimo desiderio di esperienze dirette), il percorso dell’Iron Curtain Trail cycle route (sull’ex confine occidentale con i paesi aderenti al Patto di Varsavia, che corre per 1.000 km attraversando 20 diversi paesi) e i cosiddetti “villaggi deserti” (una zona dell’ex Germania est in cui, nel 1953 e nel 1961, il partito socialista spostò forzatamente più di 11.000 persone che vivevano nei villaggi sul confine, dall’oggi al domani senza preavviso).
Qui il Padiglione Germania, con un allestimento rigoroso e molto chiaro, focalizza il messaggio della propria Biennale: lo spazio non esiste senza muri ma per liberare lo spazio serve demolire alcune parti dei muri stessi, costruendo così nuove geografie.