“Non epocale, generica, conservativa”. Pur con sfumature diverse e con qualche apertura di credito, il tenore dei primi commenti degli osservatori al “Freespace” delle Grafton è abbastanza univoco: edizione che non entrerà nel novero delle Biennali da ricordare. Soprattutto non paga il confronto con le ultime. Parte da qua Alberto Ferlenga, il rettore dello IUAV: “Koolhaas sembrava indicare la fine di un’epoca, Aravena portava una grande energia verso un nuovo orizzonte. Qui non si riesce a capire tanto bene quali siano obiettivi e senso generale dell’esposizione. Ed è una cosa che si vede anche nella modalità di allestimento con i commenti delle curatrici ad ogni lavoro, cosa che ho trovato un po’ stucchevole. Poi certo ci sono cose bellissime, però in generale non mi sembra un risultato epocale”.
Non scorge la narrazione nemmeno il critico olandese Hans Ibelings: “Mi piacciono moltissimo le Grafton come progettiste, ma mi sembra che in questa Biennale manchi proprio l’aspetto dell’approfondimento intellettuale. E’ piacevole, ci sono allestimenti meravigliosi. Molti di questi sembrano selezionati proprio come rispecchiamento del linguaggio delle curatrici. Però francamente Freespace non cambia il mio modo di vedere le cose. Per questo la trovo una Biennale conservativa”.
Sulla stessa linea lo storico Fulvio Irace: “Non mi stupisco tanto della genericità perché sono eventi che si prestano a questo esito: lanciano degli hashtag che si offrono a interpretazioni diverse. Il limite più grosso è che gli architetti ospitati sono sempre gli stessi. Quest’anno in più ci sono gli irlandesi e tanta Mendrisio. Ho apprezzato l’impostazione che trasmette l’idea di una Biennale più pulita e meno ansiosa. Ormai anche le mostre di architettura si fanno prevalentemente con le installazioni. Il problema è che gli architetti non sono bravi come gli artisti”.
Apprezzano, in controtendenza, lo storico Aldo Colonetti (“Trovo un grande sforzo innovativo sul tema dell’allestimento: soluzioni congeniali al tema, ma anche utili al contributo teorico e pratico”) e il critico Luca Molinari (“La mia è un’impressione molto positiva. Una Biennale nella quale tutti hanno lavorato molto”).
Tranchant il critico Luigi Prestinenza Puglisi, che affida il suo commento a Facebook: “Di fronte a questa Biennale, curata dalle Grafton senza lo straccio di una idea, quelle di Portoghesi, Fuksas e anche Koolhaas giganteggiano. Non si può mettere, senza che ci sia un senso, Toyo Ito davanti a Corviale o Mario Botta vicino a Tezuka Architects. Mettere i progetti per Venezia di Wright e Le Corbusier, Caccia Dominioni visto da Cino Zucchi e un vecchio progetto di Moneo. I commentini di Grafton che accompagnano ciascun progetto sembrano quelli di due maestrine che si perdono dietro l’inessenziale. Una brutta, bruttissima Biennale”.
Concentra lo sguardo sui materiali in mostra Roberto Cremascoli, curatore la scorsa edizione del Padiglione Portogallo: “E’ la Biennale della cartografia. Forse perché si chiama Freespace, ma mi pare più un happening che una mostra di architetti e per architetti. Entri nei padiglioni e ti chiedi: dove stanno i disegni?”.
Chiude, negativamente – e sorprendentemente (perché lui in “Freespace” ha uno spazio alle Corderie come architetto invitato) – Mario Botta: “La maggior parte dei miei colleghi ha pensato che fosse un’esposizione su se stessi. E il risultato è che sembra di essere in un grande luna park”.
Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale
Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale
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Un’edizione che non rimarrà nella storia
Un’edizione che non rimarrà nella storia
I commenti a caldo di alcuni osservatori speciali
“Non epocale, generica, conservativa”. Pur con sfumature diverse e con qualche apertura di credito, il tenore dei primi commenti degli osservatori al “Freespace” delle Grafton è abbastanza univoco: edizione che non entrerà nel novero delle Biennali da ricordare. Soprattutto non paga il confronto con le ultime. Parte da qua Alberto Ferlenga, il rettore dello IUAV: “Koolhaas sembrava indicare la fine di un’epoca, Aravena portava una grande energia verso un nuovo orizzonte. Qui non si riesce a capire tanto bene quali siano obiettivi e senso generale dell’esposizione. Ed è una cosa che si vede anche nella modalità di allestimento con i commenti delle curatrici ad ogni lavoro, cosa che ho trovato un po’ stucchevole. Poi certo ci sono cose bellissime, però in generale non mi sembra un risultato epocale”.
Non scorge la narrazione nemmeno il critico olandese Hans Ibelings: “Mi piacciono moltissimo le Grafton come progettiste, ma mi sembra che in questa Biennale manchi proprio l’aspetto dell’approfondimento intellettuale. E’ piacevole, ci sono allestimenti meravigliosi. Molti di questi sembrano selezionati proprio come rispecchiamento del linguaggio delle curatrici. Però francamente Freespace non cambia il mio modo di vedere le cose. Per questo la trovo una Biennale conservativa”.
Sulla stessa linea lo storico Fulvio Irace: “Non mi stupisco tanto della genericità perché sono eventi che si prestano a questo esito: lanciano degli hashtag che si offrono a interpretazioni diverse. Il limite più grosso è che gli architetti ospitati sono sempre gli stessi. Quest’anno in più ci sono gli irlandesi e tanta Mendrisio. Ho apprezzato l’impostazione che trasmette l’idea di una Biennale più pulita e meno ansiosa. Ormai anche le mostre di architettura si fanno prevalentemente con le installazioni. Il problema è che gli architetti non sono bravi come gli artisti”.
Apprezzano, in controtendenza, lo storico Aldo Colonetti (“Trovo un grande sforzo innovativo sul tema dell’allestimento: soluzioni congeniali al tema, ma anche utili al contributo teorico e pratico”) e il critico Luca Molinari (“La mia è un’impressione molto positiva. Una Biennale nella quale tutti hanno lavorato molto”).
Tranchant il critico Luigi Prestinenza Puglisi, che affida il suo commento a Facebook: “Di fronte a questa Biennale, curata dalle Grafton senza lo straccio di una idea, quelle di Portoghesi, Fuksas e anche Koolhaas giganteggiano. Non si può mettere, senza che ci sia un senso, Toyo Ito davanti a Corviale o Mario Botta vicino a Tezuka Architects. Mettere i progetti per Venezia di Wright e Le Corbusier, Caccia Dominioni visto da Cino Zucchi e un vecchio progetto di Moneo. I commentini di Grafton che accompagnano ciascun progetto sembrano quelli di due maestrine che si perdono dietro l’inessenziale. Una brutta, bruttissima Biennale”.
Concentra lo sguardo sui materiali in mostra Roberto Cremascoli, curatore la scorsa edizione del Padiglione Portogallo: “E’ la Biennale della cartografia. Forse perché si chiama Freespace, ma mi pare più un happening che una mostra di architetti e per architetti. Entri nei padiglioni e ti chiedi: dove stanno i disegni?”.
Chiude, negativamente – e sorprendentemente (perché lui in “Freespace” ha uno spazio alle Corderie come architetto invitato) – Mario Botta: “La maggior parte dei miei colleghi ha pensato che fosse un’esposizione su se stessi. E il risultato è che sembra di essere in un grande luna park”.
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Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale
Visualizza tutti gli articoliNato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale